«Sembrerebbe forse più tipico di un vescovo della Chiesa cattolica limitarsi ad affermare che il problema non è nella tecnologia, ma nell’uso che ne viene fatto. Tuttavia, mi rifiuto di restare in questa posizione neutrale perché oggi disponiamo di dati sufficienti per affermare che buona parte delle applicazioni informatiche sono state progettate intenzionalmente con l’obiettivo di intrappolare i loro utenti. E, quindi, penso che, in coscienza, abbiamo il dovere di unirci alle iniziative sociali (#AdolescenciaLibreDeMoviles) che si sono apertamente posizionate contro la pratica diffusa di regalare indiscriminatamente telefoni cellulari a bambini e adolescenti.» Voce di uno che grida in un deserto, invero, piuttosto affollato di altrettante voci profetiche, che ripetono lo stesso avvertimento, anche se non sempre in modo così preciso e consapevole.
Il monito di Monsignor José Ignacio Munilla, Vescovo di Orihuela Alicante, su Infocatolica è infatti chiaro e coraggioso, soprattutto per la prudente avvertenza su quanto gli strumenti di iperconnessione resi accessibili a bambini e adolescenti siano per sé stessi pericolosi e niente affatto strumenti e ambiente neutri. Non sono neutrali e anzi, per vedere prevalere il loro indubbio potenziale positivo e anche creativo, necessitano di interventi intelligenti, puntuali e attivi da parte degli adulti, ovvero di molta fatica e una continua presenza.
Persino tra adulti, i più virtuosi, sono arrivati ad autodisciplinarsi o ad affidarsi a app specifiche per contenere l’uso degli smartphone e device simili entro limiti accettabili, che cioè non diventino minacce per la salute. Ma quanto ci stiamo riuscendo? Da poco a pochissimo, sembrerebbe. E quanto può essere ben più pericolosa l’esposizione precoce e incontrollata dei più piccoli al mondo digitale che tra i pericoli vanta tristemente quello dell’accesso facile alla pornografia?
Per questo l’appello alla responsabilità pedagogica degli adulti in generale e della comunità dei credenti in particolare è quanto mai necessario, così come il recupero di un senso di efficacia e la rinuncia al fatalismo che sembra travolgerci tanto quanto la pervasività delle tecnologie digitali. C’è davvero un senso di sproporzione comprensibile, poiché è come se la presenza e la diffusione pressoché uniforme di questi strumenti avesse generato una sorte di atmosfera piena di particolato invisibile e nocivo, e spesso il solo strumento personale che abbiamo a disposizione per arginarne gli effetti è una misera mascherina, magari “chirurgica”. Ora, di sicuro sarebbe bello poter purificare l’intera atmosfera che tutti ci troviamo a respirare, ma nel frattempo la protezione che gli adulti possono offrire ai giovanissimi è fondamentale e bisogna riprendersi il coraggio e l’audacia per metterla in atto, andando senza troppa paura controcorrente, una cosa che al cristiano (che non è il “Bastian contrario”) dovrebbe suonare piuttosto familiare.
Il primo passo che il vescovo spagnolo invita a fare è proprio quello della presa d’atto della situazione: «Se siamo un minimo onesti, dovremo cominciare riconoscendo che, al di là degli indubbi benefici, le nuove tecnologie della comunicazione hanno generato molti effetti dannosi su noi adulti. La sfida è generale e non semplicemente generazionale. Ho sentito un uomo di Dio defunto dire: “Le nuove tecnologie sono un buon servitore, ma un pessimo padrone”». Situazione impietosamente mostrata dai dati sul fenomeno: aumento di atti di autolesionismo tra i giovanissimi del 592% (dati fondazione Anar, associazione che si occupa di infanzia e adolescenza a rischio), aumento vertiginoso – addirittura del 3543 %; aumentati anche i casi di violenza dei figli nei confronti dei genitori. Ciò che il prelato sostiene è che di fronte a un’evidente e macroscopica emergenza di salute mentale nei giovani e giovanissimi nessuno in ambito istituzionale se ne faccia veramente carico.
Secondo la perenne vocazione di madre e maestra che definisce la Chiesa, dunque, è proprio ad essa che tocca il compito improcrastinabile di fare qualcosa: «A questo punto dovrebbe esserci chiaro che ciò che non fa la famiglia stessa, non lo farà l’autorità pubblica; e anche se penso che arriviamo tardi, è vitale che, in modo sussidiario, la Chiesa si offra alle famiglie per aiutare nell’educazione digitale». Come? Per esempio rimandando l’acquisto degli smartphone dopo i 16 anni, età che gli stessi fondatori delle principali imprese digitali hanno sempre indicato come limite per i propri figli (ricordate Steve Jobs?). Per questo motivo regalare tablet o telefoni evoluti per la prima comunione è un’abitudine che gli adulti possono e devono cambiare, non senza sforzo, è indubbio, data la pressione sociale che pesa sui figli e attraverso loro arriva ai genitori: «è un vero dramma che i doni della prima comunione siano la porta attraverso la quale la pornografia diventa presente nella vita dei bambini. Sempre più professionisti consigliano di ritardare l’acquisto del cellulare per i nostri figli fino al compimento dei 16 anni».
Lasciamoci guidare dunque dal calendario liturgico più che dalle ricorrenze urlate dal consumismo: ci sarà il Black Friday il 29 di novembre, bene approfittiamone per non acquistare tecnologia o addirittura per sperimentare il vero risparmio che consiste nel non acquistare affatto. Meglio lasciarsi ispirare dai santi più che dagli sconti, meglio seguire le voci autorevoli di chi propone un’alternativa, come fa per esempio il numero di novembre del Timone che ricorda quanta vita ci sia oltre gli schermi, piuttosto che lasciarsi trascinare nel sempre più serrato circo consumistico che dopo una breve ebrezza lascia vuoti e ancora più affamati di prima. Lo smartphone può attendere, gli adulti non possono invece più disattendere al loro alto e nobile compito educativo, e la Chiesa, nonostante tutto, non ci lascia soli. (Fonte foto: Screenshot, En ti cofio – YouTube/Imagoeconomica)
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