Papa Francesco è arrivato nella giornata di ieri 31 agosto, in Mongolia. Si tratta del 43esimo viaggio apostolico del Pontefice: «Francesco lo ha detto fin dall’inizio del suo pontificato, voleva viaggiare in paesi poco visitati dai papi», ricorda Jean-Baptiste Noé – professore di storia economica all’ Università della Sorbona e di geopolitica ed economia politica all’Università Cattolica dell’Ovest (Angers). Un viaggio desiderato da tempo e fatto precedere da un gesto significativo, quello compiuto il 27 agosto 2022, giorno del Concistoro in cui il prefetto apostolico di Ulan Bator (capitale della Mongolia) venne fatto entrare nel Collegio cardinalizio.
Così, dopo la Birmania, gli Emirati Arabi, la Macedonia del Nord, l’Iraq, il Bahrein e il Sud Sudan, ora è la volta della Mongolia che per la prima volta, in assoluto, viene visitata da un pontefice. Si tratta di una delle “periferie” che il papa ama visitare, in merito a quei paesi in cui i cattolici sono decisamente una minoranza. In Mongolia, infatti, ci sono appena 1.450 battezzati su 3,5 milioni di abitanti, in maggioranza buddisti, ovvero solo il 2% della popolazione.
Un viaggio apostolico che si colloca, peraltro, in quadro geopolitico tutto particolare: la Mongolia confina con la Russia e la Cina e ha fatto parte dell’Unione Sovietica tra il 1917, 1918 e il 1992. Dunque per la posizione centrale che occupa tra i due imperi, andando in Mongolia, il papa sarà equidistante rispetto a Russia e Cina, due super potenze che ha cercato più volte di visitare ma senza successo, a causa di mancati accordi diplomatici. Dunque un’equidistanza, considerato il momento attuale, non solo geografica (un’indiretta operazione o messaggio di pace, anche?).
Non solo, questo viaggio potrebbe proseguire e forse persino concludere i negoziati avviati dalla Santa Sede, lo scorso giugno, attraverso l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati per firmare un concordato tra Mongolia e Santa Sede che regoli la presenza dei cristiani, in quelle terre. Accordo quanto meno necessario, dato che il buddismo, pur non essendo la religione ufficiale, dev’essere rispettata dal governo in quanto “religione maggioritaria” e questo non permette ad alcun cittadino di praticare, di fatto, una religione differente.
Dunque si fa più urgente che mai la necessità di definire la realtà giuridica della Chiesa in Mongolia, considerato che attualmente, peraltro, i gruppi religiosi sono considerati alla stregua delle organizzazioni non governative e al governo devono rendere conto sotto molteplici aspetti. È una situazione delicata e incerta, perché anche la registrazione delle comunità religiose e delle loro proprietà dipende esclusivamente dalla volontà dell’amministrazione centrale. Insomma, un lavoro non da poco per il secondo stato socialista della storia da trent’anni sì, fuori dall’influenza sovietica, ma che deve ancora cercare di risolvere le questioni inerenti alla libertà religiosa. (Fonte: Pexels)
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