Nel 2018 i matrimoni civili, per la prima volta in Italia, hanno superato quelli religiosi: a dirlo sono i dati Istat, che rivelano anche che gli sposi arrivano all’altare sempre più vecchi (in media, 33,7 anni lui e 31,5 lei) e che ben 1 bambino su 3 nasce da coppie conviventi.
Il Timone ne ha parlato con la giornalista Costanza Miriano, che sabato 30 novembre sarà attesa relatrice alla Giornata del Timone.
Costanza, i dati dell’Istat sui matrimoni religiosi sono solamente lo specchio di una società sempre più secolarizzata, o c’è dell’altro?
«Secondo me non è che prima ci fosse questa fede così viva, semplicemente molti si sposavano in Chiesa per pura convenzione o per non deludere le aspettative dei parenti. Non credo insomma che ora sia molto peggio di prima: anche tra i miei parenti, per esempio, potrei citare decine e decine di coppie che si sono sposate in chiesa pur senza avere un rapporto vivo con il Signore. E se è certamente vero che la Grazia agisce sempre, penso che in generale oggi i cristiani possano essere più veri e coerenti e possano fare scelte consapevoli, e non perché hanno ricevuto delle indicazioni quasi come un “obbligo”. Poi, certo, oggi la società è più secolarizzata, ma non credo che ci sia meno fede: un tempo forse i numeri erano più alti, ma c’era secondo me meno convinzione, mentre io nei miei incontri in giro per l’Italia vedo che c’è molta vivacità nella fede».
Di questo status quo vivono le conseguenze anche i (pochissimi) bambini che oggi vedono la luce, che in un caso su tre hanno genitori non sposati…
«L’aspetto negativo del contesto attuale è certamente il fatto che il cristianesimo, come atteggiamento culturale, forniva uno scheletro, dava una precisa struttura alla società. Anche se magari non c’era nelle persone un rapporto vivo con il Signore, la religione dava dei punti fermi e delle cornici certe dentro le quali muoversi, e questo nell’educazione è positiva: i bambini hanno bisogno di certezze».
Sposarsi in Chiesa implica il “per sempre”. Un vero azzardo, secondo la mentalità odierna. Qual è secondo te la ricetta per un matrimonio duraturo?
«Una ricetta non la ho! Però di sicuro è importante sottoporre il matrimonio a delle periodiche revisioni, per vedere se ci si dedica abbastanza tempo, energie, attenzioni, cura… insomma, occorre continuare a lavorare. Forse una ricetta potrebbe essere questa: tenere a mente che, per noi sposati, la nostra vocazione è il matrimonio e che, quindi, la prima persona cui fare attenzione è il proprio sposo/la propria sposa, e questo ancora prima dei figli, cosa che – soprattutto a noi donne – comporta molta fatica. Il punto zero di tutta la questione è poi che tutti noi abbiamo una solitudine originaria, come diceva papa Giovanni Paolo II, che neanche il nostro coniuge può colmare. Solo il Signore può riempiere il nostro vuoto».
Allora sposarsi in chiesa significa essere, come disse il card. Caffarra, dei “monaci 2.0”? Ossia una minoranza creativa che va controcorrente, secondo il tema che tratterai sabato alla Festa del Timone?
«Sì, assolutamente. È fondamentale avere una cura monacale del proprio rapporto con il Signore e con il proprio sposo/la propria sposa. Questo anche perché è cambiato il clima culturale in cui siamo immersi e le tentazioni sono indubbiamente di più: oggi bisogna lottare contro le voci che da tutte le parti ci dicono che non vale la pena investire nel matrimonio, che si può avere di più del proprio coniuge, eccetera. Occorre quindi lavorare per creare una controcultura e, nel contempo, imparare a educare il proprio sguardo e il proprio desiderio sulla bellezza che ci è data, ma che facciamo spesso fatica a cogliere».
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