«Voleva fare questo regalo a qualcun altro». Usa esattamente queste parole Trey Cox, dialogando in un video con Jennifer Lahl, fondatrice e presidente del Center for Bioethics and Culture Network, per raccontare il desiderio che la moglie Lydia – già madre di quattro figli – coltivava di diventare una mamma surrogata. Cox ricorda che la prima volta che la moglie gli confidò questo suo desiderio, mentre erano diretti in auto verso l’ovest della Virginia, non era particolarmente entusiasta; ma poi aveva accettato e condiviso i progetti della consorte.
Peccato che quel desiderio di fare un «regalo a qualcun altro» sia finito nel peggiore dei modi: Lydia Cox è morta il 18 luglio 2021, all’età di 33 anni. La causa del decesso è stata l’embolia da liquido amniotico, una rara emergenza ostetrica, qualcosa che in teoria si verifica in circa 5 gravidanze ogni 100.000. «Era consapevole di questo rischio, lo sapeva», spiega il marito Troy, nel momento in cui gli viene chiesto se Lydia fosse al corrente dei pericoli che correva portando in grembo quel quinto bambino. Che, per la cronaca, è sopravvissuto; col risultato che ora il giovane vedovo ha cinque figli cui badare.
Ma al di là di questo, anche ammettendo che Lydia Cox fosse davvero – e pienamente – consapevole dei pericoli che correva per fare quel regalo a qualcun altro» (che poi, appunto, sarebbe un figlio), un interrogativo resta: perché i media si occupano raramente di vicende come questa? Perché storie del genere non vengono fatte conoscere e approfondite nel grande circuito dell’informazione? La domanda non pare campata per aria, considerando che in realtà non parliamo di casi così infinitesimalmente rari.
Per dire, sempre restando negli Usa, giusto lo scorso anno, nel gennaio 2020, anche Michelle Reaves, una madre surrogata della California, è deceduta. E sempre, coincidenza, per embolia da liquido amniotico. Ancora, non può essere dimenticato il caso di Brooke Brown, altra madre surrogata – originaria dell’Idaho – che, nel 2015, è morta insieme ai gemelli che portava in grembo per una coppia in Spagna, dove la maternità surrogata è illegale. Ora, perché di queste donne e di queste morti – rarissime in un’ottica generale ma assai meno se si considera il microcosmo della surrogazione di maternità – non si parla?
«Forse capiterà come con l’industria del tabacco», ipotizza Jennifer Lahl parlando con Trey Cox. Come a dire: oggi i dubbi, le criticità e rischi della surrogazione di maternità vengono considerati marginali; ma un domani potrebbe crescere una consapevolezza collettiva che farà cambiare idea a molti. C’è solo da augurarselo, naturalmente. Anche se non va comunque dimenticato un fatto: il problema dell’utero in affitto non sono i rischi, che pure possono portare alla morte anche di donne che, come Lydia Cox, avevano intrapreso questa strada per altruismo.
No, il vero problema dell’utero in affitto è l’utero in affitto. Il fatto cioè che si mercifichi l’utero materno e si riduca il figlio a un «regalo» per «qualcun altro», quando invece è una persona umana, vale a dire un dono punto e basta. E i doni non si pretendono né si ordinano su Amazon: si cercano, si bramano, si sognano. Ma non si pretendono.
Bene quindi che si facciano conoscere vicende purtroppo drammatiche come quella di Lydia Cox – che, come spiegato da Jennifer Lahl, dovrebbero portare i legislatori a pensarci due volte, prima di approvare l’utero in affitto -, ma non si dimentichi quanto appena detto, vale a dire che i rischi che comporta rendono la maternità surrogata ancora una barbarie ancora più disumana; nel senso che, di suo, disumana lo è già.
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