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«L’obiettività della morale significa questo: la Legge viene da fuori di noi, perchè viene da Dio. Ed è eterna»
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18 Ottobre 2016

«L’obiettività della morale significa questo: la Legge viene da fuori di noi, perchè viene da Dio. Ed è eterna»

di Giuseppe card. Siri, da «Renovatio», IX (1974), fasc. 3, pp. 277-279

 

C’è chi propone «una morale dell’amore, basata su una valutazione soggettiva delle conseguenze delle nostre azioni nella luce dell’amore».

Soggettivismo, relativismo, pragmatismo. Difficile è dire in un tale quadro che cosa sia luce dell’amore.

Un altro sostiene una «etica della situazione fondata sull’esame empirico del significato degli atti». Dunque: esame «empirico» e tutti sanno che l’«empirismo» rifugge dai princìpi, ossia da impegni precisi.

Un terzo elabora «un modello di morale come linguaggio e come comunicazione». La comunicazione, poi, «cercherebbe il suo significato nell’inserimento della vita sociale e nella convivenza». Qui l’empirismo aumenta assai, perché il giudizio uscirebbe persino dal soggetto agente e andrebbe a distendersi nel rapporto esterno. I rapporti, evidentemente, stanno all’esterno.

Un quarto esibisce una «teologia morale» fondata «sulla vocazione morale del singolo, che ha dimensioni interpersonali, sociali e storiche», e rigetta la morale tradizionale ed il suo fondamento teologico. La cosa si giudica da sé.

Un quinto, assai più chiaramente, pensa ad «una morale senza antropologia» e sostiene che al termine «morale» debba essere sostituito il termine «prasseologia». La ragione per cui viene espulsa l’antropologia è che «non si può oggi elaborare un modello d’uomo o una visione dell’uomo applicabile alla nostra realtà». Infatti la nostra comprensione dell’uomo e del mondo include anche la realtà «artificiale» più che il dato naturale, significati relazionali più che significati sostanziali. Insomma l’uomo, sì, ci sarebbe; ma manca il suo modello! Non esisterebbe più la possibilità di stabilire modelli morali: solo si possono indicare delle ragioni pratiche, fondate su ragioni pragmatiche. Noi notiamo che il pragmatismo è sempre per sua natura empirico; infatti si nega l’esistenza di una gerarchia di valori e si preferisce considerare la morale dal punto di vista del costo psicologico di un atto.

Abbiamo qui individuato un bell’esempio di pluralismo.

Tuttavia si possono rilevare in tali sostitutivi della morale alcuni caratteri comuni: il valore delle azioni non ê obiettivamente stabilito, ma è qualificato da dati empirici; di conseguenza non esiste vera obbligazione morale; il dato sociologico assume un valore determinante. La morale ê un’illusione di più.

È in un certo senso logico che sia così. Logico si, ma dedotto da un principio errato, il che capovolge completamente il giudizio.
Il principio errato è che, lo si dica o lo si neghi per pudore, Dio non c’entra più.

Che Dio non c’entri, che si lasci pieno respiro tanto all’affermazione che alla negazione, che la fantasia acquisti ogni indipendenza prendendo il ruolo dell’intelligenza, significa una cosa sola: il relativismo. E si sa da che parte venga l’ispirazione. Che Dio lo si ammetta, ma venga separato dalla creazione nella quale si fonda ogni pieno diritto Suo sopra di noi, è assurdo, perché in tal caso la creazione sarebbe il duplicato di I)io. È vero che con il relativismo questo non lo si prova, come non si prova nulla, ma lo si può pensare. E ci si può illudere di pensare cose assurde.

Che Dio creatore lo si ammetta, ma lo si escluda come legislatore, ê impensabile, perché le cose create hanno inerenti a se stesse la finalità, e per conseguenza la norma, ossia la «Legge».

Che Dio creatore e legislatore non sia anche sanzionatore e inimmaginabile, perché se il fine richiede la norma, l’ordine, del quale fanno parte le cose, i loro fini e le loro norme, esige una perfezione di equilibrio, raggiunta appunto dalla sanzione.
La distruzione della morale è, in conclusione, il frutto dell’aver parlato troppo dell’uomo, poco o nulla di Dio.

Il Vecchio Testamento fu e resta anzitutto una Legge, perfezionata dal Nuovo anche nella sua parte morale. Il Nuovo Testamento è una Legge completiva della antica. Nel Vecchio Testamento i profeti tuonarono in continuazione contro le infrazioni della Legge, minacciarono (e ne seguirono) i più tremendi castighi. Nel Nuovo Testamento per coloro che staranno dalla parte della colpa e del male è chiaramente, ripetutamente, annunciata la dannazione eterna. Comunque si vogliano interpretare i singoli dettagli della Apocalisse, là è descritta l’epica lotta tra il bene e il male, il grandioso epilogo della vittoria del bene sul male. La Parola di Dio resta in eterno.

Chi non l’accetta non solo non è maestro, ma non è neppure cristiano! L’obiettività della morale significa questo.  La Legge viene dal di fuori di noi, perché viene da Dio.

O la Legge è in tal modo obiettiva, o non esiste, o, peggio, è inganno. Si abbia, almeno, la capacità di vedere che cosa si tenta di distruggere.

Lesa la morale, è leso tutto l’ordine della Redenzione. Distrutta l’obiettività della colpa, è facile distruggere l’obiettività della virtù. E allora, che resta?

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