Sarebbe stato un episodio perfetto per la fiction Che Dio ci aiuti (regina di ascolti grazie alle peripezie di suor Angela-Elena Sofia Ricci). Ma è successo veramente. Dopo aver faticosamente scassinato la cassaforte del convento della Figlie dell’oratorio di via Pietrasanta, a Codogno, provincia di Lodi, una banda di ladri si è trovata davanti un biglietto con su scritte queste parole: «Cambiate vita, è ora».
Un messaggio semplice e premuroso, eppure diretto e senza sconti, lontano anni luce dalla rabbia di chi normalmente subisce un torto simile (don Bosco non si stancava mai di ripetere che «il diavolo ha paura della gente allegra»). Un messaggio amabile, piuttosto, come sanno essere solo certe suore, oltre che assolutamente ironico, cosa rara in un tempo di tristi cappe ideologiche e forse anche per questo subito rimbalzato sui giornali nazionali.
Quotidiani che si sono limitati a raccontare il fatto, senza minimamente sforzarsi di indagare le finalità ultime, quindi spirituali, di quelle consorelle: la richiesta, cioè, della conversione del cuore, di quella salvezza dell’anima che difficilmente eviterà agli autori del gesto di riflettere sulla loro condotta.
Tanto più che non era la prima volta che i ladri tentavano il colpo in quel preciso convento, già preso di mira qualche anno fa, nonché appena pochi giorni prima del colpo fallito di mercoledì primo dicembre. «I soldi non sono all’interno della cassaforte», ha raccontato suor Gabriella, «ormai è così da tempo. Spero che il bigliettino lasciato all’interno sia stato colto da chi ha deciso di scassinare la cassaforte. C’è sempre tempo per cambiare vita e andare avanti nella legalità. Spero che sia stato utile per provare a far capire a queste persone che non si può vivere di furti».
Dalle cronache divertite si apprende che oltre al bigliettino, i ladri si sono imbattuti in un simpatico gufetto, in una candela e in alcune immaginette della Madonna. Indagando il carisma dell’Ordine, non è difficile comprendere quanto il messaggio lasciato ai ladri («Cambiate vita, è ora») sia tutto dentro e non fuori al carisma dell’Istituto. Nel dargli il nome di Figlie dell’Oratorio, infatti, don Vincenzo Grossi (fondatore dell’Opera canonizzato da Papa Francesco nel 2015 insieme ai coniugi Martin) si è esplicitamente ispirato a san Filippo Neri, colui che della gioia e della letizia spirituale ha fatto una regola di vita.
Potevano queste sorelle totalmente dedite all’educazione dei giovani – con sedici case in Italia e tre in America Latina – non usare l’arma dell’umorismo? «L’allegrezza cristiana interiore è un dono di Dio, derivato dalla buona coscienza, grazie al disprezzo delle cose terrene, unito con la contemplazione delle celesti. Si oppone alla nostra allegrezza il peccato. Anzi, chi è servo del peccato non può neanche assaporarla», così san Filippo Neri, che nella Roma del ‘500, tra tuguri resi profumati giorno per giorno da una carità fatta carne, è l’inventore primo dell’attuale oratorio. Parole, quelle del santo, che rappresentano un testamento di vita, e che introducono il tema della Redenzione, incandescente materia che è anche il cuore dei Miserabili, capolavoro di Victor Hugo e al quale l’episodio dei ladri di Codogno non può non riportare.
Il pensiero, ovviamente, vola al celebre episodio del furto in casa del vescovo Myriel da parte di Jean Valjean, protagonista redento del romanzo, ingiustamente condannato ai lavori forzati per aver rubato un tozzo di pane destinato alla sorella in difficoltà (nei suoi cent’anni di storia, molte volte il cinema saprà celebrare la nota scena inneggiante alla misericordia; da ultimo, nel ‘98, con Liam Neeson, già noto al pubblico per Schindler’s List, e nel 2000, con Gèrard Depardieu).
Il galeotto Valjean ha rubato, è vero, ma in realtà (forse proprio come i ladri del monastero di Codogno, chissà) non si sente colpevole, è un uomo ferito dall’ingiustizia del mondo. La metamorfosi avviene grazie all’incontro con il vescovo Myriel, che lo accoglie in casa. Valjean di notte ruba l’argenteria e fugge, ma viene catturato e riportato al cospetto del Vescovo. Qui accade l’inimmaginabile. Myriel, per scagionarlo, non solo afferma davanti alle guardie di avergli donato lui quegli oggetti, ma gli rimprovera di aver dimenticato i doni più preziosi: due candelabri d’argento.
Chi è riuscito a scendere nelle profondità del cuore del protagonista dei Miserabili, con le sue cadute e le sue risalite, col suo peccato e la sua redenzione, è stato Davide Prosperi, per anni braccio destro di Julián Carrón e attuale presidente ad interim della Fraternità di CL.
Per Prosperi il fatto che il vescovo Myriel non si sia limitato a trasformare l’argento rubato in dono per scagionare l’ospite, ma abbia aggiunto i candelabri (che da soli valevano più di tutto quel che Valjean aveva preso) è tutt’altro che un dettaglio. «Valjean», scrive Prosperi, «non è semplicemente liberato dalla sua colpa. Egli riceve in dono da Myriel la scoperta di una libertà ben più grande della semplice assoluzione, una libertà che davvero è senza limite. Si chiama gratuità. In Myriel, Valjean incontra la vera libertà, una libertà a tal punto sovrana, da riuscire a trasformare l’ingiustizia subìta in uno strumento del proprio affermarsi. Le fonti del rancore che lo teneva schiavo sono, così, prosciugate. Valjean è libero, libero come colui che può donarsi senza misura, perché senza misura si riconosce amato».
Impossibile, dunque, non cercare l’abbraccio del Padre, perché prima o poi si desidera inevitabilmente il suo perdono e, dopo una vita dissoluta, la ricerca della risurrezione spesso si avverte come assolutamente necessaria.
E ciò vale nella Parigi di Victor Hugo come nel lodigiano di oggi. Questo è il pensiero recondito con cui le Figlie dell’Oratorio del monastero di Codogno hanno accompagnato il loro biglietto. Dietro l’ironia c’è altro, molto altro. C’è lo stesso desiderio del vescovo Myriel: che i ladri del convento ricevano in sovrappiù il potere che prima non avevano: quello di partecipare alla gratuità stessa di Dio. Perché «dove ha abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rm 5,20).
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