“La mia è stata un’infanzia felice. Poi abbiamo dovuto lasciare Isola. C’è stato l’esodo. Ma ho imparato a non odiare”. Poche parole, di grande dignità, che riassumono una vita. Nino Benvenuti è un grande italiano e una leggenda dello sport, un pugile che i colpi li ha assestati solo all’interno del ring, equilibrato come pochi nella sua disciplina. Ed è un esule, uno di quei 350mila fiumani, istriani, giuliano dalmati che dal 1947 hanno dovuto lasciare la terra, le case e i beni ai partigiani comunisti del maresciallo Josip Broz Tito.
Quel dolore, di quando sei costretto ad andartene dalla terra che ti ha partorito e che ami visceralmente, noi che esuli non siamo, dovremmo almeno cercare di immaginarlo, di fare mente locale a quando, in qualche modo, siamo stati cacciati, rifiutati, umiliati. E moltiplicarlo all’infinito, perché il tentativo di genocidio e quell’esodo dal confine orientale tutto, è ancora oggi una storia dolorosa e una vergogna aperta per l’Italia, che non ha saputo né voluto occuparsi di connazionali che avevano la sola colpa di scappare dal comunismo jugoslavo, che evidentemente tanto paradisiaco non era.
Sappiamo quel che è successo, però ci manca il momento prima, le ore felici dei bambini che giocano in strada, gli schiamazzi e le risate, i rimproveri dei genitori, le coccole dei nonni. E poi gli odori, i sapori, quel mare dolce che segue le curve delle sue rive, due amanti complementari che si corteggiano e si amano. Si appartiene alla terra in cui si nasce. Dal cordone ombelicale, dalle radici più profonde questi italiani fieri e generosi sono stati strappati via, in un attimo che è stato subito di orrore, quello dell’annegamento con una pietra al collo, dell’essere gettati nelle foibe spesso vivi, le violenze gratuite. E nessuno a curarla, quella ferita, piuttosto è come se ci avessero aggiunto il sale, per farla bruciare di più. Accade da settant’anni. È importante, invece, conoscere quell’attimo prima, per capire meglio la tragedia del subito dopo.
Giovanni detto Nino, Benvenuti, classe 1938, è nato a Isola d’Istria. Qualche anno fa ha scritto un libro con Mauro Grimaldi, L’Isola che non c’è. Il mio esodo dall’Istria, che è una memoria ma anche un inno d’amore per la sua terra, probabilmente la pacificazione completa con il passato, sicuramente il monito a non dimenticare, ma senza odiare. Stare seduti con Nino Benvenuti al tavolo di una bar del quartiere giuliano dalmata di Roma, chiacchierare come due vecchi amici quando invece si ha di fronte uno dei più illustri campioni di tutti i tempi, è un grande onore. Non parla subito dell’esodo, ma della sua prima medaglia d’oro, vinta durante il servizio militare con i vigili del fuoco, 27esimo corso a Capannelle, lo stesso dell’attore Giuliano Gemma. “Era il 1960, avevo ventidue anni ed era un periodo importante della mia vita perché a Roma si sarebbero svolte le Olimpiadi. Essere un vigile del fuoco che vince la medaglia d’oro mi ha onorato due volte”. E poi campione mondiale, prima come Pesi superwelter e poi Pesi medi, capace di battere sul ring due leggende come Emile Griffith e Carlos Monzon. È diventato loro amico, come con Muhammad Alì, quando era ancora Cassius Clay. Nel 1947 giocava felice al porto della sua Isola.
Nato a Isola d’Istria. Com’erano l’infanzia, i giochi, i sapori di bambino?
“Eravamo una famiglia stupenda: papà Fernando, mamma Dora e cinque figli: Eliano il più grande di diciassette anni, Alfio, io in mezzo, Dario e poi Mariella, che significava tanto per noi, perché la mamma voleva una bambina, che non arrivava mai. Avrebbe potuto farne a meno, anche per salvaguardare la sua salute visto che soffriva di cuore, una stenosi all’aorta che le ha creato difficoltà nelle gravidanze. Quello era stato l’ultimo tentativo ed era nata una bambina, festeggiata non solo in famiglia ma da tutto il paese perché tutti ci conoscevano. Economicamente non stavamo male, papà lavorava nella pescheria centrale di Trieste, tutta la famiglia era di pescatori, mio nonno e il mio bisnonno, poi padre e mio zio. E quello con il mare, per me, è stato sempre un grande rapporto. Avevamo anche una barca da pesca, che usavamo più per diletto che per bisogno. A casa, si mangiava pesce in abbondanza. Ancora oggi, nei miei ricordi di bambino, se penso a un odore di cibo prevale quello del pesce, cucinato in ogni modo”
Poi sono arrivati i partigiani di Tito
“Sì, i comunisti slavi, che da noi hanno voluto la casa dove abitavamo. La polizia politica dell’Ozna l’ha praticamente assediata e siamo dovuti partire, caricando quel che si poteva, quel che ti permettevano di mettere su un camion e portare tutto a Trieste. E’ stato un grande dolore, i nonni piangevano disperati, erano vecchi e sapevano che non sarebbero più tornati. La fortuna per noi è stata che con la città avevamo rapporti diretti perché papà lavorava lì e avevamo anche un appartamento a Trieste, in via della Madonna del Mare, dove siamo andati ad abitare. È stato un obbligo, a Isola non si poteva più stare. Anche per quello che era successo a Eliano, un’esperienza terrificante. È stato sei mesi in carcere, per tre mesi non abbiamo saputo dove fosse, temevamo che fosse finito in una foiba”
L’accusa qual era?
“L’accusa? Nessuna. Eliano era un giovane che, tra l’altro, aveva contratto la poliomielite a 10 anni, per cui era innocuo, oltre ad essere l’esempio per noi fratelli. Era bravo a scuola, nel lavoro, era un ragazzo solare. La mamma è morta a 46 anni, di crepacuore, anche in conseguenza di questi fatti. Stava male ma non dava molto a vederlo. Era anche una donna intelligente, di cultura, aveva frequentato il liceo classico a Capodistria e all’epoca studiare così a lungo era raro”
Le donne di una volta, forti, capaci di fare mille cose insieme senza lamentarsi…
“La famiglia era al primo posto. In casa avevo nonni e bisnonni, il nostro era un nucleo patriarcale e tutti abitavamo nella casa di via Contesini, una villa di tre piani nel centro del paese, ci stavamo in tredici. Solo in seguito, anche perché la mamma aveva bisogno della sua privacy e, per via del cuore, di non avere tanto da fare, siamo andati ad abitare in quella bella casetta di Isola che, dipinta, chiamavamo la villa rosa”
Fino all’arrivo dei comunisti, italiani e slavi eravate due popoli che convivevano. Che rapporto avevate?
“Ognuno a sé stante ma tranquilli. Poi, quando nel ’47 hanno portato via Eliano, è cambiato tutto, si può immaginare. È certo che non si poteva voler bene a quelli lì (ai titini, ndr). Ma ci è stato insegnato a perdonare. L’educazione che abbiamo avuto, i miei fratelli ed io, è stata straordinaria, abbiamo imparato a esser tolleranti. Nonostante l’arresto di Eliano e il dolore, la preoccupazione di non sapere cosa sarebbe successo. Perché c’erano stati molti casi in cui gli arrestati non erano più tornati”
Forse hanno voluto farvi uno sfregio in quanto italiani e benestanti?
“Non si sa. Abbiamo pensato, tra le ipotesi, che magari avesse avuto qualche amico con rapporti compromettenti per le forze slave. Ma è stata una nostra supposizione. Noi volevamo sapere perché l’avessero preso, di cosa lo accusavano. Ma non c’era niente e ancora oggi non capiamo il motivo, visto che non si occupava di politica. Avessero arrestato un altro dei fratelli, come Alfio ad esempio, che era più vivace, si poteva dire qualcosa, ma di Eliano no, lui era il buono della famiglia. Dopo tre mesi abbiamo saputo che era in carcere a Capodistria, a sei chilometri da Isola. Ogni due giorni io gli portavo da mangiare, così ha potuto sostenersi. Dopo sei mesi è stato liberato, l’avevano anche torturato, per tanto tempo non ha voluto parlare. Però, quando ci penso, dico che sono stato fortunato perché, anche se ho vissuto momenti terribili, non sono finito in uno dei campi profughi riservati agli esuli e sono riuscito a non provare odio, come invece è accaduto ad altri. Perché l’odio ti corrode e a lungo andare diventi il carnefice di te stesso”
L’odio no. Ma la rabbia?
“Quella sì, tanta, ma solo fra te e te potevi dire “maledetti slavi” (lo dice in dialetto istriano, ndr), guai a farsi sentire in casa. E, devo aggiungere, la nostra famiglia ha lasciato un gran bel ricordo a Isola”
Tempo fa ha scritto un libro, L’Isola che non c’è, il racconto della vita di esule. Ci torna, ogni tanto, nella piccola patria?
“Ogni tanto un salto lo faccio. Ma non sono felice di starci. Perché non è più il mio paese. È l’Isola che non c’è più, è un’altra cosa. È cambiato tutto, non è quello che io ho vissuto e che sento dentro di me quando penso alla mia terra, non si parla più italiano, sono cambiati usi e costumi”
E anche il clima intellettuale raffinato, che era una costante di voi italiani del confine orientale, tra l’estensione della cultura veneta e l’italianità della Mitteleuropa…
“Noi avevamo il contatto costante con Trieste, quindi vivevamo una realtà diversa. È giusto parlare di cultura veneta in senso ampio e di Mitteleuropa, ma in quel che siamo c’è anche una reminiscenza che viene dall’impero asburgico e da un apporto culturale di alto livello, dall’Austria come anche dall’Ungheria. Per me l’essere cresciuto in quella zona e in quel periodo è una ricchezza non da poco perché, aldilà di una tragedia che mi ha colpito, ho capito quali sono le cose importanti di cui farsi portavoce. Ho girato il mondo ma essere nato a Isola, l’avere avuto una famiglia come la mia, è stato il mio valore principale. Ho goduto di così tanti vantaggi che mi chiedo spesso perché a me tanto e ad altri così poco”
Chi si impegna a fondo merita il successo…
“È vero, l’ho voluto e l’ho rispettato, più che meritato. Ho preso il seme e l’ho coltivato. Ho attinto a tutto quello che erano i pensieri, la cultura, la saggezza, le cose belle di quel periodo, di quel posto. Sono argomenti di cui non si vuole parlare ed è un peccato, mentre quelle località, di quell’epoca, dovrebbero essere studiate. Perché è importante capire anche come hanno vissuto gli abitanti del luogo, come hanno interagito con gli austroungarici prima e con gli slavi dopo. Perché gli slavi erano i “gregari”, non erano di grande cultura e a noi italiani ci odiavano, perché notavano che eravamo diversi, che avevamo qualcosa che, culturalmente, loro sapevano di non possedere. E ne soffrivano, odiandoci ancora di più”
Col senno di poi, nell’impegno per emergere nello sport e in una disciplina come la boxe, c’era anche la rabbia per quello che è successo, per la condizione di esule?
“Ho riflettuto se ci sia stata e se c’è ancora questa rabbia. Devo dire di no e sempre per l’insegnamento di mia madre. Di un compagno di scuola che rubava una matita, ad esempio, o che faceva un dispetto, a casa mamma Dora dava una spiegazione per il suo gesto, magari perché era povero. Queste piccole cose, che ricordo, per me sono di un’importanza infinita, perché insegnano a gestire i grandi dolori che possono capitare nella vita. È così che si impara a non odiare. Perché l’odio non arriva solo in conseguenza di grandi dolori, ma anche per piccoli fatti. Noi abbiamo imparato dalla base, ci siamo comportati bene anche con chi non lo meritava. E, tornando alla domanda, oggi dico che l’odio non ha avuto niente a che fare con quella che era la mia educazione, né con il mio impegno sportivo, la mia voglia di farcela. E neanche la rabbia. Avrei potuto prendere qualche slavo e picchiarlo, invece niente, era talmente pulita e chiara l’educazione che abbiamo ricevuto, i miei fratelli ed io, che non potevo sentire non solo odio, ma nemmeno astio. Anche quello, pur se veniale, era un peccato. Ora ne sto parlando, in genere non lo faccio, ma questi pensieri sono dentro di me. E insisto, sono nato molto fortunato”
Possiamo dire che è pace fatta con il passato?
“Assolutamente sì. Anche perché mi è stato insegnato che si deve perdonare, perché il perdono crea beneficio, ti fa star bene. Se tu odi, stai male tu, non la persona a cui vuoi male, che non sente niente. Evidentemente tutto questo mi ha aiutato anche a diventare un campione del pugilato. Che non è uno sport facile, è una disciplina dove bisogna stringere i pugni e picchiare. Ma senza avere il minimo astio”
Anche quest’anno il 10 febbraio, ormai è legge istitutiva, commemora l’esodo forzato e le vittime. E come sempre ci sono polemiche politiche. Quanto è importante, invece, il ricordo?
“Si può non odiare ma non si può dimenticare. Non ci si deve alzare ogni mattina maledicendo chi ti ha portato via tutto. Si deve ignorarlo, non pensarci con astio, ma è impossibile dimenticare, perché mia madre è morta a 46 anni anche in conseguenza di quello che abbiamo vissuto, prima con Eliano e poi cacciati da casa nostra da quei “maledetti slavi”, che però sono altra cosa rispetto agli slavi di oggi. È importante tramandare, raccontare la propria storia soprattutto se altri chiedono di farlo”
Nino Benvenuti con il suo vissuto è un esempio. Certe cose, dette da chi è rispettato perché è credibile, in questo caso un esule ma anche un grande campione, hanno uno spessore diverso, arrivano prima a destinazione. Qual è il messaggio?
“Il mio messaggio, che spero faccia bene, è quello di non odiare, anche se non si riesce a essere indifferenti verso chi ci fa del male. Si può ricordare e, anzi, si deve fare, ma senza necessariamente rodersi dall’interno. Perché odiare fa male a chi odia. E importante è non dimenticare, dobbiamo continuare a parlarne, perché non succeda più. E perché non accada ancora, bisogna conoscere i fatti”.