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L’incidente dell’Icmesa 40 anni fa, come l’Italia fu costretta ad abortire
NEWS 9 Luglio 2016    

L’incidente dell’Icmesa 40 anni fa, come l’Italia fu costretta ad abortire

di Mario Palmaro (1968-2014)

 

Nella recente storia italiana c’è un episodio da “manuale della disinformazione”. È conosciuto in tutto il mondo come “caso Seveso”, dal nome della cittadina a una ventina di chilometri da Milano che fu teatro della vicenda. Proprio in questi giorni ricorrono trent’anni da quegli eventi, che incisero pesantemente sui costumi e sulle leggi di questo Paese. Contribuendo ad affermare la barbarie dell’aborto di Stato. Ma andiamo con ordine e cominciamo, come si conviene a un giornalismo onesto, dalla realtà.

Il fatto
È un caldo sabato di luglio, a Seveso. Alle 12.37 del 10 luglio 1976 da un reattore dallo stabilimento chimico dell’Icmesa si leva nell’aria una nube di diossina, un potente diserbante. Dispersa dal vento, la sostanza va a contaminare un’area di alcuni chilometri. Le autorità sono giustamente costrette ad assumere misure precauzionali drastiche: molte famiglie sono forzatamente allontanate dalle loro case, i soldati recintano le zone più a rischio con il filo spinato, uomini in tuta bianca e maschera iniziano rilievi e operazioni di bonifica. In seguito, molte case verranno letteralmente rase al suolo, insieme alla fabbrica che aveva causato il guaio. Nel giro di qualche giorno la notizia fa il giro del mondo, trasformando Seveso in sinonimo di uno dei più gravi disastri ambientali di tutti i tempi. La gigantesca macchina mediatica si è ormai messa in moto in maniera inesorabile, costruendo un caso assolutamente sproporzionato rispetto ai fatti.

Che cosa è veramente accaduto
Si tratta di un episodio molto grave, che ha provocato disagi enormi alla gente di quelle terre. Una “macchia” che avrebbe seguito per lungo tempo le popolazioni di quell’area, già duramente colpite: vi furono abitanti di Seveso rifiutati nelle località balneari perché ritenuti contagiosi.
Chi scrive questo pezzo, nato e cresciuto a pochi chilometri dall’Icmesa, fu segnalato dal medico scolastico come sospetto caso di cloracne, mentre si trattava di un banale eczema allergico presente ben prima dell’incidente. Il guaio è che giornali e TV generarono un clima di psicosi del tutto irrazionale.
Ancora oggi nell’immaginario collettivo di moltissime persone, la parola Seveso evoca immagini terribili, simili a quelle di The day after, il celebre film sulla minaccia nucleare: si crede che a Seveso siano morte centinaia, forse migliaia di persone. E che la natura sia stata deturpata per sempre. In realtà, basta visitare oggi i luoghi del presunto disastro per scoprire una cittadina del tutto normale, abbellita da un bosco di querce che ha preso il posto dell’Icmesa. Ma, allora, che cosa è successo realmente a Seveso?
Nei giorni immediatamente successivi all’incidente muoiono animali da cortile, e alcune persone sono colpite dalla cloracne, eruzioni cutanee che nel caso di due bambine risultarono particolarmente deturpanti. Tuttavia, grazie a Dio i danni sull’uomo sono stati alla fine assai modesti.
Soltanto 193 i casi di cloracne accertati; le indagini epidemiologiche sulla popolazione del luogo condotte in questi decenni non hanno evidenziato, al momento, segnali preoccupanti. Ma, soprattutto, a Seveso non si registra all’epoca dell’incidente nemmeno una vittima. Nessun morto per colpa della diossina. Almeno fra i già nati.

Un caso da manuale
Perché allora si scelse di “gonfiare” in maniera così artificiosa le proporzioni del caso Seveso? Ci sono almeno due moventi che spiegano questo “delitto mediatico”. Il primo rimanda all’ideologia ambientalista. L’ecologismo più aggressivo – spesso collaterale alla sinistra rivoluzionaria – voleva cavalcare Seveso per dimostrare che il progresso industriale stava uccidendo il pianeta. In fondo, a sostegno di questa tesi non mancava qualche buon argomento, visto il livello di superficialità che, soprattutto a quel tempo, caratterizzava le blande misure di sicurezza degli impianti industriali. C’è però un secondo movente, molto più decisivo del primo: la volontà, da parte di alcune lobby anti-vita, di legalizzare in Italia l’aborto procurato. Sullo sfondo, la sfida lanciata alla Chiesa cattolica, il progetto – il cui esito allora non appariva così scontato – di introdurre il diritto della donna all’aborto proprio nella terra dove ha sede il papato. Il nesso con Seveso è presto detto: dopo qualche settimana da quel fatidico 10 luglio, alcuni giornali cominciano a mettere in circolazione la notizia – data per certa – che le donne incinte che vivono nelle terre colpite dalla nube inquinante avranno dei figli gravemente handicappati.
Si mette subito in moto il palazzo della politica: il 31 luglio le parlamentari Susanna Agnelli (Partito Repubblicano), Giancarla Codrignani (Partito comunista) e la radicale Emma Bonino chiedono che alle donne di Seveso e dintorni sia consentito l’aborto. Un coro di consensi si leva da quasi tutti i giornali.

La campagna abortista
All’epoca, in Italia l’aborto è ancora reato, anche se la Corte costituzionale – con la sentenza n. 27 del 1975 – ha già introdotto il diritto della donna a sbarazzarsi del concepito, quando vi siano ragioni legate alla salute fisica o psichica.
Una decisione gravissima, basata sull’idea che non solo la vita, ma perfino la semplice salute della madre conti di più della vita stessa di suo figlio. Nonostante ciò, i casi di Seveso non rientrerebbero nelle ipotesi stabilite dalla Corte.
Gli abortisti allora si scatenano per creare un clima di terrore a Seveso e dintorni: attiviste dell’Unione donne italiane, del Cisa (Centro sterilizzazione e aborto), e di altri “collettivi” raggiungono ogni giorno la zona ed esibiscono nei pressi del consultorio o degli ospedali cartelli inequivocabili, su cui campeggiano scritte come “O mostro o aborto”. Il 7 agosto il ministro della sanità Dal Falco e il ministro della giustizia Bonifacio, entrambi democristiani, ottenuto il consenso del presidente del Consiglio Giulio Andreotti, autorizzano gli aborti per le donne della zona che ne faranno richiesta.

La verità
Il Giornale di Montanelli scrive, rompendo il coro dei consensi: «Il rischio è per i bambini, non per la madre: si tratta di aborto eugenetico, e non terapeutico». Subito il Cardinale di Milano Giovanni Colombo prende coraggiosamente posizione: non uccidete i vostri figli – dice l’8 agosto –, le famiglie cattoliche sono pronte a prendersi cura di eventuali bambini handicappati. I giornali dileggiano l’arcivescovo di Milano, e rilanciano con maggiore virulenza la campagna per la legalizzazione dell’aborto. Intanto, alla Mangiagalli di Milano e all’ospedale di Desio vengono praticati i primi aborti. Certamente, l’eventuale handicap di questi innocenti non avrebbe resa lecita la loro eliminazione. Nessuno direbbe a un disabile: «Che bello se tu non fossi mai nato, ridotto come sei».
Ma all’orrore si aggiunge altro orrore, quando nel marzo del 1977 arrivano in Italia i risultati delle analisi compiute presso i laboratori di Lubecca sui poveri resti dei bambini mai nati di Seveso: nessun embrione presentava le temute malformazioni.
Erano dunque queste le uniche vittime innocenti della diossina.