La notizia ha presto fatto il giro dei media internazionali, accanto a quella della tutela della maternità per i transgender. E d’altronde la questione è ghiotta e va festeggiata, almeno secondo il mainstream: giovedì 24 giugno il Parlamento Europeo ha infatti votato, durante una sessione plenaria a Bruxelles, a favore dell’adozione del controverso testo del cosiddetto “Rapporto Matić”, dal nome del politico croato socialdemocratico Predrag Fred Matić che lo ha presentato, in materia di aborto. O, per parlare come neolingua vuole, inerente la «situazione della salute e dei diritti sessuali e riproduttivi nell’UE, nel quadro della salute delle donne», per citare il titolo esteso del Rapporto stesso.
Si tratta di una vittoria non netta, appunto alla luce delle divisioni suscitate dal testo, ma comunque (purtroppo) neanche di misura: sono stati 378 i voti favorevoli, 255 i contrari e 24 gli astenuti. E soprattutto una vittoria che, da un lato, il fronte politico composto dai partiti di centro-destra e conservatori (nello specifico, i gruppi Ppe ed Ecr) avevano cercato di scongiurare proponendo testi alternativi, che tuttavia non hanno passato la votazione; e che dall’altra era stata preceduta dai ripetuti inviti ai parlamentari, da parte del mondo cattolico e pro-life, a non dare seguito al progetto di approvazione. Su tutti, la Segreteria della Commissione delle Conferenze episcopali dell’Unione europea (Comece) che ha definito il testo «eticamente insostenibile».
Per comprendere il motivo della vivacità del dibattito attorno al Rapporto, è necessario soffermarsi sui suoi contenuti. Molto in sintesi, i concetti fondamentali e pregni di maggiori criticità sono riducibili a due aspetti: in primis, nel Rapporto si va a descrivere l’aborto come «assistenza sanitaria essenziale», con questo sottolineando che violazioni in materia di diritti sessuali e riproduttivi sono «una forma di violenza contro donne e ragazze»; in secondo luogo, si punta il mirino contro l’obiezione di coscienza, facoltà che taluni medici esercitano – per convinzioni personali, etiche o religiose – e che li preserva dal rendersi partecipi, in maniera più o meno determinante, a procedure che attentano alla vita umana: nel Rapporto si legge che tale azione corrisponde a un «rifiuto delle cure mediche», con l’evidente cortocircuito logico per cui se una persona necessita di “cure” significa che si è di fronte a una malattia o a una patologia, cosa che evidentemente la gravidanza non è.
Da queste semplici battute si comprende anche l’importanza della questione in ballo. E questo di certo sotto il profilo culturale, alla luce del fatto che con l’acquisizione a livello europeo del Rapporto si radica ancora di più una mentalità antinatalista, incapace di vedere – ancora prima che di comprendere – che quando si parla di aborto, si parla della soppressione di una vita umana a sé stante, seppur ancora nel grembo materno e in formazione. Si parla di una persona, alla quale va riconosciuto il primario diritto alla vita. E non si tratta, come ha dichiarato il promotore Matić, di «posizionare l’Europa come una comunità che sceglie di vivere nel 21° o nel 17° secolo», di «non lasciare che la storia ci ricordi come gli ultimi», bensì di riconoscere che ogni essere umano ha pari dignità, indipendentemente dalle sue caratteristiche e possibilità.
Oltre a questo aspetto fondamentale, tuttavia, vi è quindi quello legato al diritto, a livello teorico ma anche pratico. Margarita de la Pisa Carrión e Jadwiga Wiśniewska, eurodeputate, sono state nette nell’affermare che con il Rapporto si vanno ad affrontare questioni fondamentali «[…] come la salute, l’educazione sessuale e la riproduzione, nonché l’aborto e l’istruzione, che sono poteri legislativi appartenenti agli Stati membri». Oltre, ovviamente, a trattare «[…] l’aborto come un presunto diritto umano che non esiste nel diritto internazionale. Si tratta di una violazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dei principali trattati vincolanti, nonché della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia dell’Unione europea». E se è pur vero che le risoluzioni del Parlamento europeo non hanno valore giuridico vincolante, è altrettanto vero che esse possono legittimare gli Stati membri a fare “passi in avanti”, e quindi delle ricadute pratiche poi ci sono. Ricadute che forse oggi non riusciamo ancora a immaginare.
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