L’unica risposta possibile allo straordinario successo virale di “Let’s go Brandon” – il tormentone che impazza negli USA e che ha fatto nascere un dibattito infinito, oltre a un merchandising mai visto prima (t–shirt, tazze, cappellini) – è che questo rappresenti l’unica risposta possibile all’umiliazione che il popolo è costretto a subire dai cosiddetti “professionisti dell’informazione”. È bene, però, andare per ordine: mai come in questo caso senza i fatti nudi e crudi (e la circostanza che in Italia non siano abbastanza noti è un altro interessante tassello del mosaico), non è possibile capire quello che per molti è lo “scacco matto” dell’anno.
Bigottismo dem
Tutto è cominciato il 2 ottobre, in Alabama, quando un’inviata della NBC ha intervistato il pilota Brandon Brown, vincitore di una gara del campionato automobilistico Nascar. Mentre l’intervistatrice, a gara appena conclusa, interrogava il pilota, la folla ha cominciato a intonare un coro contro Joe Biden (da alcuni mesi, negli USA, specie durante gli affollati eventi sportivi, si è diffusa la consuetudine, non propriamente decorosa, di alzare cori che ritmano la frase: «Fuck Joe Biden»). Il punto è che, contro ogni evidenza, in diretta l’inviata ha comunicato allo studio «you can hear the chants from the crowd, “let’s go, Brandon!”». Cioè, «potete sentire i canti della folla, “andiamo, Brandon!”». Complice una regia che ha abbassato il volume del coro soltanto a frittata fatta, da quel giorno i critici del presidente Biden hanno usato il tormentone “Let’s go Brandon” come un modo più educato per esprimere la loro generale disapprovazione per i vertici dell’amministrazione USA (le critiche alla “Brandon Administration” – per usare l’espressione adoperata lo scorso 3 novembre, tra le risate degli astanti, dal governatore della Florida Ron DeSantis – vanno dal ritiro dall’Afghanistan alla gestione della pandemia).
Non è bastato. La gran parte dei media americani, che su Brandon sembra andata letteralmente in fibrillazione, sostiene che la battuta è volgare e irricevibile quanto il coro originale. Per il Washington Post si tratta di una frase «al vetriolo». Alcuni commentatori hanno accusato un pilota della Southwest Airlines, che durante un decollo ha pronunciato al microfono l’arcinoto tormentone, di essere «un tossicodipendente», o addirittura – la perla è dell’analista della CNN Asha Rangappa – un «simpatizzante dell’ISIS» (di rimando, il senatore texano Ted Cruz in un tweet ha risposto che «La CNN è squilibrata», e che «sostenere i fanatici religiosi genocidi non è la stessa cosa che non essere d’accordo con l’attuale presidente»).
De Niro può
Le piste che la goliardata di “Let’s go Brandon” – suonata, ballata, utilizzata nei sermoni politici – sta aprendo nel dibattito americano, hanno origini profonde. Impossibile non notare, innanzitutto, la solita doppia morale liberal, di chi oggi si scandalizza per i meme che impazzano, ma che ha passato anni a celebrare la retorica violenta contro l’ex presidente Donald Trump (ai Tony Awards, Robert de Niro ricevette dal pubblico glamour di Hollywood una convinta standing ovation semplicemente pronunciando, con aria di sfida e con le braccia al cielo, “fuck Trump!”).
È interessante notare come in Italia il commento più acuto sulla vicenda sia arrivato da uno studioso di storia del cristianesimo antico e di letteratura patristica, Leonardo Lugaresi. Come a dire che la questione finto-comica ha un fondamento “alto”, ontologico (non è un caso che nel Vangelo si legga «Oportet ut scandala eveniant», è bene, cioè, che gli scandali, per poterli smascherare, emergano).
«Abituati a negare la realtà»
L’analisi di Lugaresi parte da una (semplice?) constatazione: «Pare anche che fino a poche settimane fa il “curioso fenomeno” (i cori triviali contro Biden, ndr) venisse sostanzialmente ignorato dai media: essendo difforme dalla Verità Ufficiale che Biden è il presidente più popolare della storia americana in quanto il più votato di sempre, non poteva esistere».
Il fatto che durante l’intervista dell’inviata a Brandon Brown si sentisse chiaramente il coro della gente, che «per lei era “Let’s go Brandon”», secondo lo studioso di Gregorio Nazianzeno significa inevitabilmente che «gli operatori dei media sono così abituati a negare la realtà, cioè in sostanza a mentire, che la dissimulazione è diventata una seconda natura». È questa, per Lugaresi, la cruda morale della storia, tanto che, aggiunge, «la mancanza di connessione tra la realtà e la sua rappresentazione mediatica è ormai così radicale e sistematica da trascurare ogni cautela, ignorare ogni senso del limite, ogni timore del ridicolo».
Pernacchio come «segno di vita»
Per Lugaresi è proprio il senso del ridicolo l’elemento che può salvare, «la crepa, l’anello che non tiene in questa catena di bugie che tutti ci avviluppa». E ancora: «la comicità della situazione, fortissima perché del tutto involontaria, ha per una volta colmato la misura e qualcosa è tracimato. […] Uno sberleffo collettivo, un pernacchio globale». Leonardo Lugaresi è cosciente che il granellino nel motore regalato dal “fenomeno Brandon” potrebbe non bastare a far riguadagnare all’informazione la dignità perduta, ma è altrettanto convinto che “Let’s go Brandon” sia da considerare come «un segno di vita». Perché – conclude l’autore di Andare all’Inferno (e uscirne). Diario di un viaggio con Dante (MC editrice, 2021) – «anche sotto la cappa più opprimente, accorgersi che il potere è ridicolo e prenderlo in giro (magari solo mentalmente, se non si può fare altro) è un modo per segnalare che si è ancora in vita. (Persino nell’Unione Sovietica di Stalin si pensavano barzellette)».
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