Giacomo Leopardi, un italiano geniale, è stato un patriota a suo modo, in quanto fustigatore di ogni retorica patriottarda. Quasi un cantore dell’Italia federalista, perché in realtà unita da un’anima più profonda. Il poeta di Recanati fu quasi un controrivoluzionario.
Il giovane Leopardi non fu un ardente pre-risorgimentale, ma un patriota che non vagheggiava un’Italia futura, quanto, invece, fu cantore del retaggio italiano. In qualche modo il recente sceneggiato dedicato al poeta dell’Infinito, con regia di Sergio Rubini e andato in onda su Rai1, è riuscito a rendere questa originalità del poeta, sebbene lo abbia un po’ dipinto con toni sessantottini e più in generale lo abbia privato della sua “gobba”, rendendolo un giovane piuttosto belloccio e privo di un aspetto non secondario per comprendere la sua vita e le sue opere.
Ma qui ci interessa il patriota. C’è un componimento dell’appena diciasettenne Giacomo, incoraggiato dal padre Monaldo, in cui qualcuno ha preteso di intravedere il Leopardi pieno di spirito risorgimentale, altri, invece, il Leopardi bieco conservatore. Né l’uno, né l’altro. Il componimento del 1817, intitolato “Orazione per la Liberazione del Piceno”, indirizzata “Agl’Italiani”, è in realtà un grande canto all’Italia, al suo genio e alla sua bellezza. Non si tratta solo di un libello antinapoleonico e francese, si tratta pur sempre di un testo che esaltava le insorgenze marchigiane e abruzzesi contro la calata di Napolene, è qualcosa in più.
Per il giovane Leopardi, l’unità dell’Italia, per quanto «sarebbe formidabile ai suoi nemici», in realtà non la renderebbe necessariamente «felice». Per asserirlo, scrive Leopardi, «converrebbe supporre che la felicità della nazione consista nella forza delle armi, nell’esser terribile allo straniero, nel poter con vantaggio cominciare una guerra e continuarla senza cedere, nel possedere tutto ciò che fa d’uopo per esser temuta e che è necessario per non temere, nell’abbondanza dei mezzi per sostenere la gloria dei propri eserciti e la fortuna delle proprie armi».
Ma se la vera felicità dei popoli «è riposta nella pace necessaria alle arti utili, alle lettere, alle scienze, nella prosperità del commercio e dell’agricoltura, fonti della ricchezza delle nazioni, nell’amministrazione paterna di Sovrani amati e legittimi; possiam dirlo con verità, non v’è popolo più felice dell’italiano». Ciò che manca agli italiani allora, scrive Leopardi, è un fattore decisivo: «la pace», intesa come condizione per esprimere quello spirito e quella Bellezza che sono proprie di questo popolo. E per essa è necessario combattere.
Italia, scrive lirico il Leopardi, «invano la natura ti fe’ madre feconda dei più nobili artefici, invano ti rese superiore ad ogni popolo nelle arti e ti fornì dei loro più rari prodotti, invano i Raffaelli e i Tiziani travagliarono assiduamente per illustrare la loro patria col loro immortale pennello; lo straniero, non potendo rapirti gl’ingegni, ne usurpa i frutti e ti priva del modo di mostrare all’Europa con autentiche testimonianze la tua superiorità. Italiani! Si vuol privarvi di quella gloria che avete acquistata da tanto tempo e che tanti secoli vi confermarono. Non permettete che lo straniero profitti del vostro silenzio».
Quindi l’esortazione finale, che è un richiamo alla radice di cotanta «pace» da riconquistare. «Italiani, fratelli, compatriotti generosi e nobili, in questa guerra sacra, in cui tutta la cristianità si arma per la difesa dei suoi legittimi diritti, rimarrem noi spettatori neghittosi e tranquilli?». Ecco un Leopardi inatteso. Così rilanciamo questa domanda due secoli dopo perché, tutto sommato, c’è da pensare che in fondo non sia mai stata ben compresa dagli italiani di ieri e di oggi.
(Foto Ansa)
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