In questo tempo – e ancor più da quando Milano è stata il palcoscenico per la manifestazione a favore delle trascrizioni dei figli delle coppie omogenitoriali – si fa un gran parlare di “maternità surrogata”, “gestazione per altri”, ma noi preferiamo utilizzare l’innominabile e medievale “utero in affitto”. Che rende meglio l’idea.
Da quando una pratica che mercifica bambini e donne è diventata un diritto? Esattamente dagli anni Settanta negli Stati Uniti. Inizialmente, anche se alcuni imprenditori intravedono la possibilità di dare vita a un fiorente business, non è facile procacciare donne disponibili a disfarsi di un figlio con i propri tratti genetici e neanche persone desiderose di crescere figli con un patrimonio genetico per nulla familiare. Tutto cambia quando nel 1978 nasce la fecondazione in vitro (Fivet): ora è infatti possibile separare la madre surrogata – che diventa niente più che un contenitore – da colei che fornisce gli ovuli. Ora sì che tutto acquisisce un nuovo volto, più appetibile e flessibile alle esigenze del mercato. È possibile scegliere il patrimonio genetico che più aggrada e qualsiasi donna è potenzialmente adatta alle esigenze del “committente”, non coinvolgendo il suo Dna.
Parlare in questi termini potrebbe sembrare forte, qualcuno oserebbe dire “offensivo”. Ma se scaviamo più a fondo – cosa che raramente vedrete fare nei media mainstream di oggi – scopriremo che i rischi per chi affitta il proprio utero non sono così innocui e secondari. E di questo non si parla quasi mai. Negli anni Ottanta, negli Usa, affittare un utero costa circa 45 mila euro, di cui 10 mila per la surrogata, 15 mila per il mediatore, e il resto per spese legali varie. Lievita così il numero di agenzie, tra cui la Growing Generation che si specializza nel fornire servizio a coppie omosessuali.
In poco tempo il fenomeno dell’utero in affitto negli Usa cresce esponenzialmente: dai 100 casi del 1981 ai 1.210 del Duemila. Un business che è stato calcolato arriverà a valere 27,5 miliardi di euro entro il 2025. Così in nome di un diritto che contrasta apertamente con la biologia – fin tanto che non nascerà un uomo con ovuli e utero non sarà possibile per coppie gay concepire, con buona pace degli Lgbt -, nasce una nuova forma di schiavitù. Molto spesso infatti sono donne di colore, povere e poco informate a dirsi pronte per portare in grembo figli confezionati su misura.
Torniamo al lato veramente oscuro. Dalla narrazione comune viene completamente ottenebrata la possibilità che le madri surrogate corrano dei seri rischi. Maggio 2012, Premila Vaghela ha 30 anni. Viene seguita dal Pulse Women’s Hospital, struttura privata che segue le madri surrogate ad Ahmedabad, nel Gujarat, stato dell’India occidentale. Da otto mesi porta in grembo un bimbo che alla nascita dovrà consegnare a una coppia di americani quando, dopo aver accusato dei forti dolori, viene immediatamente ricoverata nell’unità di terapia intensiva prenatale. Grave collasso cardiaco che le costa la vita. I medici non sanno come muoversi, il figlio, che pesa solo 1,740 kg viene fatto nascere tramite cesareo. Viene fatto di tutto per salvare quel bambino “già pagato”.
Anche Brooke Lee Brown è morta a 34 anni. «Viveva a Burley, in Idaho, mamma surrogata seriale: otto gravidanze a carico di cui cinque su commissione. Alla fine del 2014, dopo solo tre mesi di pausa, il nuovo transfer per una coppia spagnola. A pochi giorni dal parto programmato di due gemelli, l’8 ottobre 2015, la placenta di Brooke si è rotta. Per lei e per i suoi bambini non c’è stato nulla da fare», così si legge su Il Mattino del 24 gennaio 2016.
E poi Michelle Reaves (che vedete cerchiata di rosso nella foto), morta il 15 gennaio 2020, per un’embolia causata dal liquido amniotico mentre partoriva il secondo figlio commissionato in una clinica di San Diego. Solo per citarne un’altra – perché purtroppo non sono le uniche – c’è la storia di Lydia Cox, i cui quattro figli sono diventati orfani dopo che la “gestazione per altri” le ha portato via la vita. Morta il 18 luglio 2021 a soli 33 anni sempre per embolia da liquido amniotico, complicanza ostetrica che dovrebbe verificarsi circa 5 gravidanze su 100.000.
Prendiamo in prestito le parole del dottor Massimo Gandolfini per spiegare con dovizia di particolari ciò che forse non è ancora chiaro ai più: «La donna produce di norma un ovulo per volta, […] ogni mese e alternativamente, da una delle due ovaie. Ma con un solo ovulo nei procedimenti di Fivet non si combina un bel niente. Ne servono decine. Così, per produrli ed espiantarli in grandi quantità, occorre iperstimolare la donna con la somministrazione di ormoni. Orbene, il professor Carlo Flamigni, uno tra i maggiori esperti italiani nel campo della Fivet, nel suo libro La procreazione assistita […] scrive a pagina 29 che l’iperstimolazione ovarica è “una sindrome pericolosa persino per la vita” e a pagina 36 ribadisce che è “una complicanza abbastanza pericolosa”. Succede infatti che “l’ovaio cresce in modo anomalo fino a raggiungere un volume pari a quello di un grosso melone. […] Successivamente, […] si forma un’ascite e compaiono raccolte di liquido nelle cavità pleuriche e nel pericardio. Il sangue si ispessisce e perde proteine e la funzionalità renale diminuisce pericolosamente. A causa di grossolane anomalie della coagulazione si possono determinare trombosi e tromboflebiti, talché esiste addirittura un rischio di vita nei casi più sfortunati”. E Flamigni è presidente onorario dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti e ha scritto per anni sull’Unità».
Chi oggi si riempie la bocca di “diritti” ci sta offrendo l’immagine di una realtà patinata che nasconde in sé tutto il marcio che queste storie consegnano alla nostra memoria. E abbiamo il dovere di farcene carico, di raccontarle, di riportarle a galla. L’inganno odierno che mantiene fisso come bersaglio la donna, miete vittime fisiche e ideologiche. Cogliamo l’occasione per ricordarvi il nostro numero di marzo – qui per abbonarsi – che mette in guardia dalla narrazione dominante che attanaglia la donna tra aborto, gender fluid e mercificazione del proprio corpo. (Fonte foto: Facebook)
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