«Da quali e quante calamitose procelle siano miseramente agitati e sconvolti, con sommo dolore del Nostro animo, il Nostro Stato Pontificio e quasi tutta l’Italia, nessuno certamente lo ignora, Venerabili Fratelli».
Così si apre l’allocuzione Quibus, quantisque malorum data dal beato Pio IX il 20 aprile 1849 dall’esilio di Gaeta. Qui infatti il Pontefice era stato costretto a riparare in seguito alla rivoluzione neogiacobina che aveva instaurato la pur effimera (seconda) Repubblica Romana, presieduta dai triumviri Giuseppe Mazzini (1805-1982), Aurelio Saffi (1819-1890) e Carlo Armellini (1777-1863) dal 29 marzo al 1° luglio di quell’anno.
Davanti allo scempio prodotto dai rivoluzionari, Pio IX denunciava lucidamente:
Intanto ognuno vede da quali e quanto gravi ferite nello stesso Stato Pontificio sia ora trafitta l’immacolata sposa di Cristo, da quali ceppi, da quale vilissima schiavitù venga sempre più oppressa, e da quante angustie sia travagliato il suo Capo visibile. E a chi mai è ignoto esserci perfino impedita la comunicazione con Roma, e con quel Clero a Noi carissimo, e con l’intero Episcopato, e con gli altri fedeli di tutto lo Stato Pontificio, tanto che non Ci è neppure concesso d’inviare e ricevere liberamente lettere, anche se si riferiscano ad affari ecclesiastici e spirituali? Chi non sa che la città di Roma, sede principale della Chiesa Cattolica è ora divenuta, ahi! una selva di bestie frementi, ridondante di uomini d’ogni nazione, i quali o apostati, o eretici, o maestri, come si dicono, del Comunismo o del Socialismo, ed animati dal più terribile odio contro la verità cattolica, sia con la voce, sia con gli scritti, sia in qualsivoglia altro modo si studiano con ogni sforzo d’insegnare e disseminare pestiferi errori di ogni genere, e di corrompere il cuore e l’animo di tutti, affinché in Roma stessa, se fosse possibile, si guasti la santità della Religione Cattolica, e la irreformabile regola della Fede? Chi non sa, né ha udito essersi, nello Stato Pontificio, con temerario e sacrilego ardimento, occupati i beni, le rendite, le proprietà della Chiesa; spogliati i templi augustissimi dei loro ornamenti; convertite in usi profani le case religiose; le sacre vergini malmenate; sceltissimi ed integerrimi ecclesiastici e religiosi crudelmente perseguitati, imprigionati, uccisi; venerandi chiarissimi Vescovi, insigniti perfino della dignità cardinalizia, barbaramente strappati dal loro gregge e cacciati in carcere? E come questi tanti ed enormi misfatti contro la Chiesa, e i suoi diritti, e la sua libertà si commettono nello Stato Pontificio, così in altri luoghi ove dominano quegli uomini o i loro pari in quel tempo appunto in cui essi stessi dovunque proclamano la libertà, e danno ad intendere essere nei loro desideri che il supremo potere del Sommo Pontefice, sciolto da qualsivoglia vincolo, possegga e fruisca di una piena libertà.
E tutto questo perché quegli
uomini […] non miravano ad avere istituzioni più libere, né riforme più utili alla pubblica amministrazione, non pròvvide misure di qualunque genere, ma volevano bensì invadere, scuotere, distruggere il dominio temporale della Sede Apostolica. E questo loro proposito, per quanto poterono, lo realizzarono con quel decreto emanato dalla cosiddetta, da loro, Costituente Romana il giorno 9 febbraio del corrente anno, con il quale dichiararono essere i Romani Pontefici decaduti di diritto e di fatto dal governo temporale: né sappiamo dire se sia stata più grave l’ingiustizia contro i diritti della Chiesa Romana e la libertà ad essi congiunta nell’adempiere l’ufficio Apostolico, o se furono maggiori il danno e la calamità per tutti i Sudditi pontifici.
L’allocuzione Quibus, quantisque malorum rievoca dunque un pezzo dimenticato della nostra storia, un pezzo di storia patria rimossa. Oggi, grazie all’editore Amicizia Cristiana di Chieti, l’allocuzione torna in una affascinante versione anastatica che ne conserva intatto persino il fascino bibliofilo: l’edizione pubblicata nel 1850 seguita da «una esposizione della medesima a modo di catechismo del prof. S.S.» vale a dire il padre gesuita Serafino Sordi (1793-1865), collaboratore de La Civiltà Cattolica, grande promotore della rinascita degli studi tomisti
La situazione in cui in quel frangente Roma si trova a causa della “libertà” e della “costituzione” è grave: qualsiasi comunicazione del Papa con i vescovi, il clero e i fedeli è impedita; Roma diviene in breve il ricettacolo di apostati, eretici, comunisti e socialisti giunti da ogni del mondo; i rivoluzionari s’impossessano di tutti i beni, redditi e possedimenti ecclesiastici; le chiese vengono spogliate degli ornamenti; gli edifici religiosi sono dedicati a mille altri usi; le suore vengono pubblicamente maltrattate; i religiosi assaliti, imprigionati e uccisi; e i sacerdoti isolati e incarcerati.
Si studia poco nelle nostre scuole, soprattutto nelle sue verità innegabili, ma la Repubblica Romana fu una vera sciagura.