Hiroshima, Giappone ‒ Da piccoli, le impressioni che per prime o per forza suggestiva si allocano nell’hard disk vergine della nostra memoria diventano delle vere “fisse”. Uno dei tormentoni dei miei anni verdi, carpito da chissà quale documentario in bianco e nero di allora, spiegava l’orrore immane della bomba atomica sganciata dall’aviazione degli Stati Uniti su Hiroshima, in Giappone, il 6 agosto 1945, con un dettaglio mostruoso. La quantità e la violenza dell’energia rilasciata da quella deflagrazione senza pari fu tale che di un uomo, polverizzato in un secondo assieme a centinaia di altri, rimase soltano un’immagine impressa sulla pietra. Il duro granito come fosse tenera pellicola fotografica, l’ultimo istante di una vita umana ignara e innocente catturato da un bagliore così accecante da diventare buio impenetrabile.
C’è solo un paragone, e non paia blasfemo: quello con la Sindone. Una forza inimmaginabile che trasfigura la realtà, lasciandocene una fotografia irripetibile: nell’un caso divina, con la vita che torna a esplodere, nell’altro demoniaca, con la vita annientata, il male sempre come scimmia di Dio. Quell’informazione, che ripetevo un po’ per darmi aria di saputello un po’ per sgomento vero, era però così incredibile, surreale, lontana dalla realtà da scolorirsi. Davvero difficile da credere. Prese così i tratti della leggenda. Lo avevo sentito davvero o la fantasia aveva ingigantito la realtà? Ecco, trovarsi, quasi mezzo secolo dopo, davanti a quell’ombra di un ignaro cliente lasciata sui gradini della Sumitomo Bank Company, dov’era in attesa, da un sole micidiale di 4mila gradi nel Museo della pace di Hiroshima lascia senza parole.
Oggi, 10 dicembre, a Oslo una cerimonia solenne conferisce il Premio Nobel 2024 per la Pace assegnato alcune settimane fa alla Confederazione Giapponese delle Organizzazioni delle Vittime della Bomba Atomica e delle Bombe a Idrogeno, nota con il nome di «Nihon Hidankyo». La cosa che colpisce di più qui a Hiroshima è che tutto ciò che ricorda la tragedia dell’atomica è intitolato alla pace. Il ricordo, lo struggimento e il dolore hanno ovunque il nome della pace. Non c’è astio, senso di rivalsa, vendetta. certo, ci sono stati e ancora ci sono reazioni di odio, ma sono marginali. Quando parlano di quell’orrore i giapponesi più anziani piegano le labbra in un sorriso mesto e trasognato, i più giovani non hanno invece tempo per quel passato, indaffarati ad assomigliare il più possibile a personaggi manga. Ma che il riconoscimento alle vittime da parte delle organizzazioni internazionali sia giunto 80 anni dalla tragedia fa riflettere.
Fa riflettere su quanto le parole d’ordine del mondo di oggi siano vuote e inutili. «Pace». Forse è il vocabolo più usato, tanto da non significare alcunché. Chi sa infatti come si costruisce la pace autentica, cosa sia la pace vera, da dove venga, cosa significhi? È sufficiente pronunciarla quella parola? Certo che no. Ne parlo con i giapponesi di questa città martire. I più avveduti mi mettono in guardia. A toccare l’argomento bomba atomica si passa da comunisti. «La Sinistra ha da sempre il monopolio dell’argomento. Una farsa: come se i regimi comunisti più criminali le atomiche, e micidiali, non le avessero», mi dice un signore già di una certa età e non certo un quidam de populo. Già, l’ideologia è riuscita anche in questo: a monopolizzare un tema che andrebbe invece gestito con spirito di verità.
Il Genbaku Domu (o Dome, all’inglese), sul corso del fiume Ōta, sembra un dinosauro di cemento, scheletro di un palazzo per la promozione dell’attività industriale della Prefettura di Hiroshima rimasto enigmaticamente in piedi mentre tutto il resto attorno si è sbriciolato per chilometri. Il punto esatto dell’esplosione è nella via qui dietro. La bomba scoppiò nel cielo, a circa 600 metri di altezza. Avrebbe dovuto centrare il ponte Aioi, circa 250 metri dal Genbaku, ma mancò il bersaglio e colpì l’ospedale Shima. Io non credo che chi abbia visitato questi luoghi e viste le immagini della gente bruciata viva, dei corpi con le pelli cotte, della pioggia nera radioattiva, delle «macchie della morte» che per decenni hanno mietuto vittime possa volere un mondo così. Gli ordigni di oggi sono infinitamente più devastanti di quelli che hanno polverizzato questa città e poi ancora Nagasaki, tre giorni dopo.
L’equilibrio del mondo è oggi mantenuto dal terrore. La bomba atomica si conserva negli arsenali proprio per non usarla. Nessuno è così sciocco da non capire la profondità della realpolitik. Ma la domanda vera è: come siamo arrivati a tanto? La cattedrale dell’Assunzione di Maria è un esempio canonico di reinterpretazione moderna dello stile architettonico sukiya, cerimonioso e tipico. La costruzione iniziò nel 1950 e la cattedrale fu consacrata nel 1954. È stata voluta in omaggio alle vittime della bomba. Papa san Giovanni Paolo II la visitò nel febbraio 1981 e all’interno conserva reliquie dei santi Francisco e Jacinta Marto, pastorelli di Fatima. I cristiani in Giappone sono meno dell’1% e i cattolici meno della metà di quella percentuale. Ma se la pace, solida, seria, cominciasse da qui?
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