«Veritas numquam perit, la verità non muore mai». Queste le parole con cui Johnny Depp ha scelto di commentare la vittoria processuale ottenuta nelle scorse ore su l’ex moglie, Amber Heard, che dovrà versare 15 milioni di dollari per averlo diffamato dato che in pieno MeToo, dalle colonne nientemeno che del Washington Post, lo aveva accusato di violenza domestica; un’accusa non provata né provabile e dunque diffamatoria, secondo la giuria della Virginia pronunciatasi sul caso al termine del processo iniziato il 12 aprile e durato sei settimane.
Tuttavia, se da un lato è vero che «la verità non muore mai», dall’altro è innegabile come qualcosa che, se non morto, sia comunque uscito bastonato dal processo vinto dall’ex Pirata dei Caraibi: sono i movimenti #MeToo e #BelieveAllWomen. Più in generale, la vera sconfitta in questo processo – forse più ancora di Amber Heard, che pure adesso rischia la bancarotta – è la presunzione di colpevolezza che il femminismo 2.0, da anni, ha rilanciato a carico di ogni maschio che, per il solo fatto di essere tale, dovrebbe essere visto come un potenziale femminicida, come usa dire, o stupratore.
Peccato che la Giustizia, come ha ben sottolineato lo scrittore Kurt Mahlburg, sia «cieca per una ragione. Il principio che un imputato è innocente fino a prova contraria è ciò che distingue la giurisprudenza occidentale dalla giustizia mafiosa e dalla corruzione, ambedue caratteristiche di altri tempi e, ancora oggi, di altre società». Heard ha dunque perso in aula non perché donna ma perché, ha rivelato al New York Post l’ex giudice della California Halim Dhanidina, non solo non ha portato prove, ma è parsa «non autentico, esagerato o non meritevole di empatia».
Ecco che allora, in questa vicenda processuale non c’entra affatto il maschilismo – difficile da tirare in ballo anche vedendo chi c’era a capo del team legale di Depp, ovvero la giovane e battagliare Camille Vasquez -, mentre invece c’entra, eccome, il tonfo di un #MeeToo che ha finito per rivelarsi un pregiudizio, vale a dire non solo ciò che è, ma ciò che in fondo è sempre stato. Vengono in mente, a tal riguardo, le considerazioni fatte anni fa da Erin Pizzey, l’attivista e scrittrice britannica che aprì il primo rifugio per donne vittime di violenza domestica del Regno Unito nel 1971.
«Il movimento femminista ovunque ha distorto il problema della violenza domestica per i propri fini politici e per riempirsi i portafogli», aveva infatti notato già anni fa Pizzey, facendo presente di aver visto «le femministe costruire le loro fortezze di odio contro gli uomini». In effetti, senza l’odio non si spiega molta parte di ciò che sono e sono stati in questi anni #MeToo e #BelieveAllWomen. Per fortuna, però, in tribunale non parlano i sentimenti, ma i fatti. E i fatti dicono – è questa è forse la vera lezione del processo di Depp – che anche un uomo può dire la verità; e pure una donna può mentire.
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