Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un estratto del libro A me la Gloria – Porti la tua croce come il pavone dispiega la sua ruota? edito da Berica Editrice per la collana Uomovivo (pag. 44-47)
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di Fabrice Hadjadj
Niente rende più umili della vittoria. Il goleador sa di non essere l’autore del «passaggio decisivo» e che sarebbe bastato un nulla perché il suo tiro rimbalzasse sul palo o fosse parato dal portiere; allora cade in ginocchio, fa il segno della croce, scompare sotto il grappolo dei suoi compagni di squadra. Quando un uomo lucido si trova catapultato in una posizione di autorità, non manca mai di sperimentare una specie di sentimento d’impostura. Quando un vero eroe trionfa in mezzo ai pericoli, sa che non è interamente dipeso da lui, sa che è il beneficiario della fortuna, del destino o della grazia. La luce più forte che lo illumina ne proietta un po’ meglio l’ombra. Più si è innalzato, più sente la mano che lo innalza, più ha l’impressione di non essere granché di per sé, quanto il recipiente di benedizioni antiche e nuove.
Si ritrova qui l’altalena tra innalzamento e abbassamento contenuta nel celebre avvertimento di Gesù: Chi si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato (Mt 32, 12). Questa altalena forse non va presa innanzitutto in un senso successivo e penale – secondo la rappresentazione comune di un giusto giudizio che abbassa, biasimandolo, colui che si è innalzato orgogliosamente o che innalza, ricompensandolo, colui che si è abbassato umilmente. Il capovolgimento si opera all’interno dello stesso essere creato, nell’istante stesso del suo coronamento: l’innalzamento al di sopra degli altri ci abbassa, perché sappiamo che questo innalzamento è un dono che viene dall’alto e da prima – dalla grazia e dalla schiatta – e che supera i nostri meriti. Tommaso d’Aquino lo riassume in questi termini limpidi: «Ciò che rende un uomo superiore, l’uomo non lo ha da sé stesso, ma è qualcosa di divino in lui. Ed è per questo che l’onore non spetta principalmente a lui, ma a Dio».
Questo primo paradosso ci permette di comprenderne un altro. Il teologo afferma sulla scia di Aristotele che chi ha una grande anima, votandosi a grandi cose – il magnanimo (da magna anima) –, impiega spesso l’ironia. Non ce lo saremmo mai aspettato. L’amante della gloria ci sembrava piuttosto come un tipo molto «esplicito», che si fionda verso le conquiste, indurito dallo spirito di serietà. Come potrebbe essere ironico? Come anche solo pensare – poiché la magnanima per eccellenza, per Tommaso d’Aquino, è la Vergine che canta il Magnificat – che esista un’ironia mariana? Quanto detto in precedenza ce lo fa intravedere: colei che viene innalzata al di sopra degli angeli riconosce nel medesimo istante che il Signore ha guardato l’umiltà della sua serva, e di beneficiare della promessa fatta ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre (Lc 1, 48 e 55). L’atleta trionfante, secondo Pindaro, sente al tempo stesso di essere «il sogno di un’ombra». Maria benedetta tra tutte le donne, secondo san Luca, sente al tempo stesso di essere una serva e un’erede indegna.
L’ironia in questo caso non è una semplice figura stilistica o una forma mentis caustica. A dire il vero il magnanimo non è ironico, è ironia. Il suo stesso essere si fonda sul fatto che la sua gloria presuppone il suo vuoto, la sua ricettività è appesa a un dono verticale. Più viene giustamente onorato, più sa che quest’onore spetta prima di tutto a un altro, e non solamente a Dio, ma anche alla contingenza (che è forse un altro nome del Dio degli incontri), a coloro che la provvidenza ha messo alla sua radice e poi a quelli che ha messo sul suo cammino, che lo hanno sostenuto fino a qui e senza i quali non sarebbe nulla. (Foto: YouTube)
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