«La paura, naturalmente, era nata prima del coraggio». Così don Simon Jubani ha raccontato il clima che si respirava il 4 novembre 1990, quando in Albania, dove si era raggiunto un livello di repressione ignoto anche agli altri regimi comunisti, tornò la libertà religiosa. Dal 1945, anno della presa del potere di Enver Hoxha, la dittatura provava a mettere al bando Dio dalla società albanese. Qualunque nome avesse: a Durazzo finirono nella stessa prigione e nella stessa tomba il muftì Mustafà Varoshi e l’arcivescovo Prendushi. Il culmine della persecuzione contro cattolici, ortodossi, musulmani sunniti e i sufi bektashi arrivò nel 1967 con il divieto di ogni manifestazione di culto e con la definizione, nella Costituzione del 1976 rimasta in vigore fino al 1992, di “primo Stato ateo al mondo”.
Eppure, mentre il regime provava a imprigionare anche il cielo, la fede in Albania veniva salvata da anziani preti torturati e piegati dai lavori forzati nei lager (erano 31 nel 1991 secondo Amnesty International), piccole suore che a rischio della vita battezzavano clandestinamente e anziane nonne che insegnavano le preghiere ai nipoti prima di addormentarsi, nascoste sotto le coperte per non farsi sentire. Davanti agli ex luoghi religiosi trasformati in teatri e centri sportivi, capitava poi di notare qualche cero lasciato nel buio della notte. Sfidavano il terrore: a scuola i bambini venivano istigati a denunciare i genitori; a Pasqua bastava avere l’alito dal puzzo di aglio, che gli albanesi usano per festeggiare quel giorno, per rischiare l’arresto.
Anche grazie alla fede di questi resistenti, il 4 novembre 2015 gli albanesi si ritrovano, guidati dal presidente della Conferenza episcopale monsignor Angelo Massafra e dal cardinale emerito di Palermo Salvatore De Giorgi, al cimitero cattolico di Scutari, nel nord. Qui, venticinque anni fa, don Jubani celebrò la prima Messa pubblica in Albania. Proprio nel 1990, don Simon aveva subito l’ennesimo arresto. «Mi avevano rotto tutti i denti ed ero così prostrato che non sentivo per niente i calci e pugni», ha ricordato nelle sue memorie. Gli si avvicinò un ufficiale che gli mise sul naso un medaglione della Madonna: «Sputaci sopra e ti libero subito!», gli disse, e al suo rifiuto seguì una nuova razione di torture. Ma a Berlino era caduto il muro e anche in Albania iniziavano a soffiare i primi venti di libertà. «Però – ha raccontato il sacerdote – la popolazione, nutrita con la psicosi del terrore, non voleva crederci. Iniziai ad accompagnare i morti al cimitero, davanti a me c’era sempre un bambino con la croce in mano».
Alle nove del mattino del 4 novembre, un uomo di nome Mark bussò alla porta di don Simon: «Mi disse che alcune persone, radunate nel cimitero per pulire le tombe dei cari, volevano sentire la Messa e lo avevano mandato a chiamarmi». Quando il prete arrivò al cimitero, chi si era radunato continuò a sistemare le lapidi, senza neppure salutarlo, perché non si dicesse che lo avevano invitato. Nel posto dove una volta c’era l’altare, restava solo un mucchio di immondizia: «Mark ritornò dalla sua casa con un piccolo tavolo in mano: era il primo altare che si innalzava in Albania dopo la grande distruzione». Dietro al muro del cimitero, dove si buttavano i rifiuti della città, nei decenni precedenti erano stati fucilati numerosi martiri.
Don Simon iniziò a celebrare l’Eucarestia, mentre alcuni fedeli si avvicinarono prendendo coraggio. Spiega l’attuale vescovo di Scutari, monsignor Massafra: «Proprio perché non era sicuro che la celebrazione sarebbe finita bene, erano arrivati altri sacerdoti pronti a sostituirlo qualora lo avessero ucciso». Alla fine della Messa, i presenti erano 400-500, la polizia non intervenne e fu il segnale che la libertà religiosa era tornata. L’11 novembre seguì un’altra celebrazione pubblica, a cui parteciparono migliaia e migliaia di persone, mentre il 16 novembre i musulmani aprirono e si riappropriarono della moschea di Scutari detta “del Piombo”. Durante la commemorazione per il venticinquesimo anniversario, si ricorderanno in particolare i 40 martiri albanesi per cui è in corso la beatificazione. «Speriamo – dice monsignor Massafra – che l’anno del Giubileo della Misericordia coincida con la conclusione del processo».
Tra di loro vi è anche un gesuita italiano, padre Giovanni Fausti, ucciso nel 1946, e una donna, l’aspirante stimmatina Maria Tuci. Nel 1950, dopo un anno di prigionia, disse a un’amica che andò a visitarla: “Ringrazio Dio perché muoio libera”. Si era avverata la minaccia del suo persecutore: «Ti ridurrò in uno stato tale che neppure i tuoi familiari ti potranno riconoscere». Tutti erano stati torturati. Ha raccontato un testimone di quello che toccò al francescano Serafin Koda di Lezha: «Lo immersero in un bidone d’acqua fino al collo, gli affondarono le unghie nella gola sino a spezzargli la trachea. Padre Serafin si rivolse alla Madonna con questa preghiera: “O Vergine Santa, porta presto a compimento il tuo lavoro!”». Don Anton Muzaj di Scutari veniva invece costretto a rimanere in piedi con il naso attaccato al muro, legati mani e piedi, per interi giorni e notti, mentre la sete acuiva le sofferenze. Chiedeva ai due prigionieri che lavavano il pavimento del corridoio della prigione di non asciugare quell’acqua, per poterla bere. Bastonato, morì di tubercolosi dopo che gli buttarono addosso secchi gelati e lo esposero alle correnti dei mesi invernali. Su 6 vescovi e 156 preti di prima del regime, ben 65 morirono per esecuzione o tortura e 64 erano deceduti dopo essere stati incarcerati o nei campi. Alla fine della dittatura sopravvivevano una trentina di sacerdoti: tutti avevano conosciuto la detenzione.
La Croce dei martiri albanesi nella chiesa delle Stimmatine a Scutari (Foto di Stefano Pasta)