Per questo un giorno qualunque di un anno e mezzo fa ha lasciato casa, con i risparmi di sua madre, di una vita intera, chiusi in una tasca. Ha abbandonato l’Eritrea, attraversato il Sudan ed è arrivata in Libia. Con quei soldi avrebbe dovuto pagare un trafficante, garantirsi il suo posto su uno dei barconi che attraversano il Mediterraneo e arrivare a Lampedusa.
Ma il viaggio di Wered si è interrotto al checkpoint di Ajdabja, Libia orientale, uno dei punti di aggregazione di migranti diretti verso le coste della Tripolitania. La ragazza è stata rapita da un gruppo di uomini, insieme ad altre decine di donne, e condotta a Sirte, città costiera che diede a Gheddafi i natali e la morte, e che per un anno e mezzo è stata dichiarata dal cosiddetto stato islamico (Is) capitale della provincia di Tripoli.
Oggi Wered è incinta, ma non sa chi è il padre di suo figlio, perché lei, come le sue connazionali, è diventata una schiava sessuale dei miliziani di Al Baghdadi in Libia. «Sono stata venduta — dice la ragazza, con il volto coperto da un velo viola che lascia intravedere solo i suoi occhi tristissimi e smarriti — a quattro uomini diversi in pochi mesi, l’ultimo era un sudanese. Non so chi sia il padre di mio figlio, non so neppure da quanto tempo sono incinta. Non voglio questo figlio, è il figlio del demonio. Vorrei solo dimenticare. Dimenticare di essere stata trattata come un oggetto. Di essere stata venduta quando si annoiavano di me. Di essere stata abusata per mesi».
Wered racconta che gli uomini che l’hanno tenuta in ostaggio, picchiata, violentata e torturata la costringevano a chiamarli “padrone”. La tenevano chiusa in una stanza, aprendo la porta solo per soddisfare le proprie voglie. «Mi ripetevano ogni giorno che la mia vita non contava nulla. Mi dicevano: dimentica di aver avuto una vita, dimentica la tua famiglia. La tua vita dipende da noi, come la tua morte». Oggi la ragazza non vive più segregata nelle abitazioni dei suoi “padroni”, dei miliziani dello stato islamico libico.
Tuttavia non è libera. È detenuta in un carcere alla periferia sud di Misurata, terza città della Libia a circa 240 chilometri da Sirte. L’hanno condotta lì i soldati libici dopo aver liberato la città. Le forze armate di Misurata, riunite insieme ad altre forze libiche nell’offensiva, dopo sette mesi di guerra feroce casa per casa, hanno liberato la città di Sirte all’inizio di dicembre.
Le ultime settimane della guerra sono state particolarmente lente e difficili, proprio per la presenza di civili nelle ultime abitazioni da liberare. I miliziani dell’Is tenevano in ostaggio e usavano come scudi umani non solo le proprie famiglie, decine e decine di donne e bambini, ma anche Wered e le sue compagne.
All’interno del carcere ci sono donne libiche, irachene, siriane, tunisine: sono le mogli dei miliziani e devono essere interrogate perché i soldati libici devono capire se abbiano o meno informazioni sulle strategie future dell’Is in Libia. Devono capire cosa sanno queste donne, capire ad esempio se abbiamo ascoltato conversazioni tra i miliziani che si stanno riorganizzando nel sud del paese. Devono capire inoltre se hanno informazioni sui reclutatori di jihadisti e sulle tecniche che usano per attrarre giovani alla jihad.
Wered e le sue connazionali non hanno alcuna informazione, i miliziani dell’Is le costringevano a vivere chiuse in una stanza. Eppure condividono con le altre donne un destino di detenzione, senza avere accesso a cure mediche, supporto psicologico, senza potere utilizzare un telefono e avvertire le proprie famiglie che sono in salvo, ma soprattutto senza sapere se e quando potranno uscire di prigione. La ragazza stringe la mano di Mesmer, venticinque anni, hanno fatto il viaggio insieme dall’Eritrea, oggi si sostengono in un limbo nuovamente doloroso.
«Wered — dice Mesmer — è stata doppiamente sfortunata: anche io sono stata violentata, ma a me davano ogni giorno delle pillole per evitare che restassi incinta. Questa giovane ragazza così avrà la vita distrutta più di quanto l’abbiamo noi». Mesmer ha il volto indurito dalla rabbia e dalle privazioni subite in tanti mesi. Una volta ha provato a fuggire rompendo una finestra. Ma si è rotta una gamba, è stata catturata di nuovo, picchiata e violentata per giorni da uomini diversi.
«Mi cedevano — racconta l’amica di Wered — o mi vendevano. Una volta uno dei miei padroni mi ha regalato a un suo amico e mi ha detto: se non ti comporti bene e non gli obbedisci ti vengo a prendere e ti taglio la gola. Non eravamo più esseri umani. Eravamo peggio delle bestie». Molte di loro sono state rapite insieme ai mariti. Non sanno più nulla di loro, perché al momento del rapimento i miliziani dell’Is hanno separato gli uomini dalle donne e trasferito queste ultime a Sirte.
Le donne eritree sono cristiane, e nel dramma della loro vita in segregazione si è aggiunta l’indicibile violenza religiosa. Sono state costrette a convertirsi all’islam.
Audit, trent’anni, siede sul suo letto nella cella del carcere. Il suo volto è illuminato dalla poca luce che passa dalla piccolissima finestra in cima alla parete. La giovane donna stringe nervosamente le sue mani, l’una con l’altra, così nervosamente che sembra consumarle.
Non alza mai gli occhi da terra. Prova vergogna, dice. «Mi hanno costretto a convertirmi. Mi dicevano che i nostri uomini erano stati torturati e uccisi. Che noi avremmo fatto la medesima fine perché siamo cristiane, dunque infedeli. Mi dicevano: se non ti converti ti tagliamo la gola in piazza, davanti a tutti e ti bruciamo».
La giovane eritrea racconta di essere stata chiusa in una stanza semibuia per mesi. Le davano poco da mangiare e la picchiavano continuamente dopo aver abusato di lei. Oggi il cuore e la mente di Audit sono così provati che lei dice di non riuscire a dormire mai. Ripete solo: non ho fatto niente per meritare questo.
Audit scappava dalla povertà. Oggi è in carcere, pur essendo vittima e vittima due volte. Non può uscire dal carcere, non può raggiungere il suo sogno di salvezza in Europa e non può tornare a casa sua, perché rischia di essere uccisa.