di Andrea Tornielli
Narra un'antica cronaca indigena che nell'anno 1531, dieci anni dopo la conquista del Messico da parte degli spagnoli di Hernàn Cortes, “ai primi di dicembre, era un sabato, un povero indio di nome Juan Diego, sul colle chiamato Tepeyac, vide una giovane Signora che lo chiamava con dolcezza”.
Juan Diego Cuauahtlatoatzin – il beato e prossimo santo dal cognome più difficile nella storia della Chiesa – era diventato cristiano da pochissimi anni e sua moglie, battezzata con il nome di Maria Lucia, era morta prematuramente nel 1529. All'epoca ha 57 anni. Si sente dunque chiedere dall'apparizione che lì, in quel luogo, venga eretta una cappella “perché io sono la Madre misericordiosa tua e di tutti coloro che abitano questa terra; qui ascolterò il vostro pianto, e curerò le vostre numerose pene…”. La Signora chiede all'indio di andare dal vescovo, il francescano spagnolo fra Juan de Zumarraga, e di rendergli noto il suo desiderio. Com'era prevedibile, il vescovo di Città del Messico (all'epoca vescovo eletto, sarà consacrato nel 1533) non crede alle parole di Juan Diego e lo congeda in fretta. L'indio ritorna sul colle il giorno successivo e dice all'apparizione: “Ho capito che il vescovo pensa che la richiesta non provenga da te, ma dalla mia fantasia. È meglio che tu ti affidi a un altro, io sono un povero indio… Zumarraga vuole una prova che la richiesta provenga davvero dalla Regina del Cielo”. Maria, che lo chiama “Juan Dieguito”, gli ripete che desidera che sia lui, proprio lui, l'umile indigeno, a compiere quella missione e lo invita a tornare la mattina dopo per trovare la “prova” richiesta.
Il giorno successivo Juan Diego deve condurre in tutta fretta un sacerdote al capezzale di suo zio, gravemente malato, e si incammina per un'altra strada: non vuole “essere trattenuto dalla visione”. La Madonna, però, gli appare lo stesso e accoglie le sue scuse confortandolo: “Sappi che tuo zio è perfettamente guarito… Tu ora sali in cima al colle dove mi hai vista le altre volte e dove io ti ho fatto la mia richiesta. Troverai una grande quantità di fiori. Raccoglili e portameli qui”. Era dicembre e, nonostante la stagione, sul Tepeyac Juan Diego trova un prato di splendidi fiori, che raccoglie nel suo mantello, chiamato “tilma”, e tessuto con la rozza fibra di agave. La Vergine gli dice: “Mio piccolo figliolo, questi fiori saranno il segno per il vescovo… Solo alla sua presenza aprirai la tilma e mostrerai ciò che porti”. Decine di fiori sbocciati misteriosamente d'inverno sono un segno tangibile, concreto, anche se forse non sarebbero bastati a convin¬cere il francescano. L'indio, tenendo il suo mantello arrotolato davanti al corpo per trattenerli, si incammina verso la residenza del vescovo e deve fare parecchia anticamera prima di essere ammesso in sua presenza. Quando apre la tilma e lascia cadere a terra i fiori, sul tessuto di agave c'è impressa una bellissima immagine della Regina del Cielo. Così il “santo desiderio” dell'apparizione viene accolto e mentre si lavora per costruire la cappella sul Tepeyac, il mantello di Juan Diego viene esposto in cattedrale, dove accorre moltissima gente.
In cinque secoli la Vergine di Guadalupe è diventato il santuario mariano più frequentato del mondo e l'apparizione è stata l'evento fondante per il cristianesimo americano. L'indio morirà nel 1549. Nel 1990 Giovanni Paolo II lo ha proclamato beato riconoscendo un culto antichissimo e ora, dopo approfondite indagini storiche della Congregazione per le cause dei santi e dopo aver accertato un miracolo attribuito alla sua intercessione, lo proclamerà santo il prossimo 30 luglio a Città del Messico.
Il racconto dell'apparizione è stato fissato dall'indio Antonio Valeriano nella lingua indigena nahuàti propria degli Aztechi in un documento prezioso, chiamato “Nican Mopohua” e risalente agli anni tra il 1552 e il 1560, oggi conservato nella Biblioteca di New York. L'immagine mariana rappresenta un'eccezionale testimonianza catechetica, comprensibile anche agli indigeni più umili. La Madonna infatti vi appare con la pelle leggermente scura e sembianze meticce: indossa una tunica color rosa che porta disegnati dei motivi flo¬reali simili l'un l'altro tranne uno, posto al centro del ventre. Quel simbolico fiore è un'immagine che richiama, nella tradizione indigena, la divinità. Inoltre indossa una cinta tipica¬mente utilizzata dalle donne in gravidanza. Gli indigeni che la guardano capiscono immediatamente che si tratta di una donna che sta portando in grembo Dio.
Al nucleo originale dell'immagine sono stati aggiunti posteriormente dei raggi, una mezzaluna sotto i piedi e un ange¬lo che la regge, oltre alle stelle dorate sul manto azzurro. Due studiosi americani, Philip Sema Callahan, analista scientifico di pittura e primo tecnico dell'Università del Kansas, insieme a Jody Brant Smith, “master of arts” nell'Università di Miami, hanno cercato di scoprire il segreto dell'immagine servendosi della fotografia a raggi infrarossi. Hanno scoperto “la figura originale, comprendente la tunica rosa, il man¬tello azzurro, le mani, il volto e il piede destro” e che di queste parti “rimane inspiegabile il tipo di pigmenti cromatici utilizzati”. Non ci sono tracce di abbozzo, l'immagine risulta unica, insolita, incomprensibile e irripetibile. Il volto è fatto con tinte sconosciute, in modo da esaltare la diffrazione della luce dovuta al tessuto privo di qualsiasi fondo, che conferisce alla pelle una sfumatura olivastra.
Va detto poi che il tessuto della tilma, alto 168 centimetri e largo 130, è composto di due pezze cucite tra loro e che l'ordito della tela è molto rado. È già una meraviglia che si sia conservato così intatto dopo essere rimasto per secoli esposto al fumo delle candele.
Nel 1789 uno scienziato messicano, José Ignacio Bartolache, dipinse una copia della tela con l'immagine e la espose vici¬no all'originale: per effetto del salnitro e delle intemperie si deteriorò in poco tempo. I fiori della tunica rosa rappresentano perfettamente l'orografia del Messico di allora, così come le stelle del manto sono una riproduzione fedele delle costellazioni visibili da Città del Messico nel Cinquecento.
Ma c'è un mistero nel mistero: le palpebre dell'immagine, osservate ingrandendo le fotografie, presentano tutte le ramificazioni venose dell'occhio umano. E nelle pupille della Vergine, grazie alle tecniche della computeristica digitale, lo scienziato José Aste Tònsmann, professore all'americana Cornell University, ha potuto notare che in entrambi gli occhi appaiono particolari con identica precisione, immagini che hanno angolazioni e proporzioni simili a quelle che si presenterebbero negli occhi di una persona viva.
Queste immagini sono così piccole che soltanto con le tecniche di ingrandimento fino a duemila volte, oggi disponibili, è stato possibile individuarle: nell'occhio destro appare un gruppo familiare indigeno, una donna con un bambino sulla spalla e un uomo con un cappello simile a un sombrero che li guarda. Nell'occhio sinistro compare un uomo anziano con la barba, identificato con il vescovo Zumarraga. Immagini conformi alle cosiddette leggi oftalmologiche di Purkinje e Sanson, come avviene soltanto negli occhi vivi. È come se l'immagine della Vergine si fosse “fissata” sulla tilma avendo nelle pupille la scena che stava avvenendo in quel momento.
IL TIMONE – Marzo – Aprile 2002 (pag.48-49)