«Il senso dei beni e della loro amministrazione nella Chiesa era già chiaro fin dall’inizio, perché tra gli apostoli risulta che da un lato c’era una cassa e dall’altro sbagliarono subito a scegliere l’economo». Sullo IOR si può benevolmente e pastoralmente ironizzare, come fece il cardinal Attilio Nicora con la citazione riportata, oppure scrivere un rigoroso libro-inchiesta, frutto di studi, interviste e letture di archivi inediti. Parliamo dell’ultima fatica di Francesco Anfossi, caporedattore di Famiglia Cristiana ed editorialista de L’Eco di Bergamo. Il suo libro, appena uscito per le edizioni Ares, ha per titolo IOR. Luci e ombre della Banca vaticana dagli inizi a Marcinkus.
L’URGENZA DI AIUTARE SEMPRE (ANCHE IN GUERRA)
Se il denaro della Chiesa ha sempre esercitato un’attenzione morbosa nell’opinione pubblica mondiale, alimentando una produzione sterminata (Anfossi parla di «un vero e proprio filone “gotico”, di marca soprattutto anglosassone, che mescola notizie false a notizie vere»), bisogna riconoscere che la fantasia spesso smisurata di scrittori e registi alla Dan Brown ha avuto gioco facile. Tra figure come Sindona, Calvi; suicidi eclatanti; crack finanziari (il Banco Ambrosiano su tutti), gli scandali consumati dentro le mura leonine non sono mancati. La capillare ricostruzione di Francesco Anfossi, che passa anche attraverso un’aneddotica vivida e affascinante, ha però il merito di rimettere tutto in equilibrio, restituendo una fotografia completa dello Ior.
Ben oltre il rumore degli scandali c’era da spiegare la complessità della struttura finanziaria della Santa Sede, variamente stratificatasi nel tempo, e soprattutto le nobili finalità dell’Istituto per le Opere di Religione. Come ricorda lo storico Agostino Giovagnoli nell’introduzione al libro, non è affatto un caso che lo IOR nasca per volontà di Pio XII in piena Seconda guerra mondiale: anche in circostanze proibitive bisognava assicurare il mantenimento dei flussi finanziari alle “opere di religione”. «Le guerre», scrive Giovagnoli in un’ottica storico-teologica, «rendono molto difficile la vita di una grande realtà internazionale qual è la Chiesa cattolica. Ostacolano o, peggio, interrompono i legami interni che costituiscono il prezioso tessuto della sua universalità». Ancora riguardo alla “purezza” degli obiettivi dello IOR (troppo spesso sottaciuti), Anfossi ricorda come l’Istituto riuscì a garantire l’autonomia finanziaria della Santa Sede anche negli in cui Roma fu occupata dai nazisti (1943 e ‘44), anni in cui i suoi spazi extraterritoriali, «in una città non ancora aperta», ospitarono e nascosero moltitudini di ebrei e antifascisti.
LA BUFALA DEL “TESORO DEGLI USTASCIA”
In un contesto in cui «metà Roma nasconde l’altra metà», nel libro spicca la figura dell’ingegnere Bernardino Nogara, il quale riuscì a trovare i lingotti mancanti ai 50 chili d’oro richiesti dal gerarca nazista Kappler. «L’aguzzino tedesco», scrive Anfossi, «aveva chiesto alla comunità ebraica 50 chili d’oro, pena la deportazione di duecento ebrei, ma la raccolta era arrivata a 35 chili». Ci pensò, appunto, Nogara, su sollecitazioni di Pio XII. Le fonti certe fanno del libro del giornalista anche uno strumento per demolire definitivamente molte delle proliferanti bufale ancora in circolazione. Come quella del cosiddetto “Tesoro degli Ustascia”, vicenda in cui lo IOR viene accusato (addirittura tramite una class action di ebrei di origine serba), di aver ricettato oro, gioielli e altri beni sottratti loro dai nazionalisti croati guidati da Ante Pavelić.
Un’accusa gravissima, «forse seconda solo agli scandali legati alla pedofilia che più di recente hanno travolto la Chiesa», «che fa il gioco dei detrattori di Pio XII», e che «dipinge il Vaticano come un covo di malvagi, cinici e corrotti, manipolando o citando documenti mai esistiti». A tal proposito Anfossi smonta l’ipotetico «comportamento schizofrenico» della Chiesa, incapace di stare in piedi da nessun punto di vista. «Se dovessimo guardare queste accuse le cose dal punto di vista della coerenza», scrive l’autore prima di dedicare un intero capitolo del libro al caso dell’“oro nazista”, «lo stesso Vaticano che da un lato […] donava l’oro richiesto dal capo delle SS e della Gestapo di Roma Herbert Kappler per salvare le vite della comunità ebraica, dall’altro lato si sarebbe dedicato alla ricettazione dell’oro degli ebrei perseguitati dagli Ustascia».
MARCINKUS E IL PRESTITO PER L’OPERAZIONE ALLE ANCHE
La comparsa di monsignor Paul Marcinkus ai vertici dello IOR apre invece un’altra stagione, molto più burrascosa, in cui alle luci si aggiungono le ombre. La ricerca di Anfossi ha il merito di raccontare tutto, senza tesi precostruite. Ecco allora che alla famigerata intervista rilasciata da Marcinkus al londinese The Observer, quella per cui «la Chiesa non si mantiene con le Ave Marie», sul chiacchieratissimo prelato, l’autore del libro aggiunge molti altri particolari. Piccoli dettagli poco conosciuti, ma che nell’insieme restituiscono al lettore un quadro diverso. Quello di un prelato mondano, incompetente, chiacchierato (all’americano di origine lituana Marcinkus si ispirò perfino Francis Ford Coppola per il film Il Padrino-Parte terza), ma forse non in malafede. Alla fine della sua parabola romana, per esempio, una volta trasferitosi in Arizona (e accolto da quella comunità lituana per la quale diceva messa in un ranch nel deserto trasformato in una chiesa), Marcinkus vivrà con una pensione pari a circa 2000 euro, «cifra dignitosa ma non certo agiata», scrive Anfossi. Che sul prelato aggiunge: «Tira avanti senza particolari lussi, nonostante la sua fama di viveur, se è vero che per sostenere un intervento chirurgico alle sue anche malandate dovette chiedere allo Ior una donazione di 10.000 dollari. La domanda, firmata dal suo superiore […] venne approvata e la somma fu inviata a Sun City». Se la cosa non fa di Marcinkus un santo, ridisegna almeno la misura delle cose, al di là di ogni “cinema” girato sul suo conto.
LA SEVERITÀ DEL «CRISTIANO ADULTO» ANDREATTA
Oltre che con Sindona, il nome di Marcinkus resta indissolubilmente legato a quello di Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano. Il prelato incrementò la partecipazione azionaria dello IOR nella banca milanese, in una spirale che vide l’Istituto per le Opere di Religione sempre più compromesso nelle azioni poco trasparenti di Calvi. Fu così che quando il Banco Ambrosiano precipitò in una bancarotta da oltre 1600 milioni di dollari, lo IOR rimase inevitabilmente coinvolto. «Il crollo si sentì in tutto il mondo», scrive Anfossi, che a supporto riferisce la micidiale metafora dell’allora governatore della Lombardia Piero Bassetti: «Quel giorno era come se fosse venuto giù il Duomo di Milano». La ricostruzione che l’autore fa della seduta della Camera di venerdì 8 ottobre 1982, nella quale il ministro Beniamino Andreatta approfondirà i principali aspetti «di una vicenda che è di complessità pari alla sua gravità» (parole di un ministro assolutamente privo di timori reverenziali verso il Vaticano), non solo è drammatica, ma in controluce sembra essere anche paradigmatica di un approccio politico che ha fatto scuola.
Così Francesco Anfossi: «Beniamino Andreatta arrivò a fare quel discorso alla Camera con grande sofferenza, nella sua condizione di “cristiano adulto”. Ma le conclusioni, secondo ambienti vicine alla Democrazia Cristiana, furono esagerate. […] Andreatta parlò con la mente e con il cuore. Per lui fu molto doloroso, perché amava la Chiesa, ma sentiva il peso della responsabilità di laico al servizio dello Stato. Ma c’è chi sostiene che andò al di là dell’accertamento delle reali responsabilità dell’Istituto. Forse il suo timore di mostrarsi, in quanto cattolico, indulgente nei confronti di un’istituzione della Chiesa, lo spinse sulla sponda opposta, a un atteggiamento eccessivamente severo nell’enunciazione delle responsabilità. Poteva capitare spesso da parte degli esponenti democristiani, soprattutto appartenenti alla corrente della sinistra del partito».
La questione Ambrosiano-IOR venne chiusa quasi due anni dopo, a Ginevra, ad opera della maestrìa diplomatica del lungimirante cardinale Agostino Casaroli, segretario di Stato. Il 25 maggio del 1984, in un verbale passato alla storia come l’Accordo di Ginevra, lo IOR decise di pagare poco più di 240 milioni di dollari. Lo fece però non a titolo di risarcimento, bensì come atto di «contributo volontario» in cambio della rinuncia da parte delle banche a qualunque futura rivalsa.
MADRE TERESA DI CALCUTTA E LO IOR
Impossibile citare tutti i passaggi, i personaggi, le analisi, le testimonianze, i colpi di scena, i numeri e gli aneddoti presenti nel denso e prezioso libro di Francesco Anfossi. Non possiamo però non citare un particolare dal sapore paradossale, un tassello dell’intricata storia dello IOR capace, anche da solo, di rimandare tutto ad un “livello” più alto. Dopo l’onerosissima restituzione di capitali, più che con la vendita di alcuni asset finanziari, lo IOR riuscì a recuperare liquidità grazie alla “matita di Dio” Madre Teresa, la piccola suora albanese canonizzata nel 2016 da Papa Francesco. «L’angelo dei lebbrosi», scrive l’autore, «aveva scelto lo Ior per custodire e far fruttare le infinite donazioni che arrivavano da ogni parte del mondo all’indirizzo di quella congregazione di suore che vivevano di elemosina per le strade di fango di Calcutta e in altre periferie del mondo». (Foto: Imagoeconomica/Ares)
Potrebbe interessarti anche