Marco, nome di fantasia, è un bambino fortemente prematuro che sta lottando come un guerriero per rimanere aggrappato alla vita in un ospedale dell’Emilia-Romagna. Il piccolo, frutto della fecondazione artificiale, è stato abbandonato dai genitori che tanto avevano fatto per stringerlo tra le braccia, ma che di fronte all’ipotesi di problemi fisici e psicologici anche molto gravi hanno deciso di renderlo adottabile. Nel giro di pochi giorni, il Tribunale per i minori e i servizi sociali hanno individuato un’altra coppia, che ora sta accompagnando Marco nella sua lotta per la sopravvivenza.
Raggiunto dal Corriere di Bologna, Giuseppe Spadaro, presidente del Tribunale per i Minorenni dell’Emilia Romagna, non è entrato nel merito del caso specifico, ma ha dichiarato a titolo generale: «A volte vanno addirittura all’estero per effettuare percorsi non consentiti dalla normativa italiana, ma quando il bambino non è come lo si desidera e ha seri problemi sanitari, non tutti se la sentono e sono disposti a crescerlo. Il mio compito e quello dei miei colleghi è esclusivamente, insieme alla rete degli operatori minorili, di prodigarci per individuare una nuova famiglia a questi bimbi così sfortunati. Ed è invece una fortuna che esistano persone stupende, disposte a sacrificare la propria vita per solidarietà e puro altruismo. Per dedicarsi e donarsi agli altri».
Il caso del piccolo Marco, che arriva in maniera così diretta all’emotività di ognuno, interroga infatti anche il diritto e la bioetica, in un difficile labirinto che si dipana tra i codici della normativa italiana e il rispetto di quella che è la legge naturale.
Il Timone ha contattato per un commento Monica Boccardi (foto a fianco), avvocato civilista e cassazionista, aderente ai Giuristi per la Vita.
Avvocato Boccardi, il caso del piccolo Marco pone di fronte a un primo, fondamentale interrogativo: è lecito “fabbricarsi” un bambino su misura, sia che questo avvenga con la fecondazione artificiale, sia con l’utero in affitto?
«A mio avviso non è lecito moralmente, né lo dovrebbe essere giuridicamente. Avere un figlio, per quanto sia comprensibilmente un legittimo desiderio, non può divenire un diritto, proprio in quanto avrebbe a oggetto un altro essere umano. Il bambino, in quanto “persona” è soggetto titolare di diritti propri e non può in nessun caso essere ridotto ad “oggetto” di diritti altrui, nemmeno di quello alla cosiddetta “genitorialità“.
Su un altro piano, appare evidente quali possano essere le conseguenze e le sofferenze psicologiche per il bambino della scoperta di essere il “prodotto” di fecondazione artificiale, soprattutto eterologa. E se i gameti derivano da altre persone (che li vendono) sorgono anche problemi ulteriori: dal diritto negato alla conoscenza delle proprie origini biologiche, al diritto negato alla conoscenza delle malattie ereditarie e anamnesi familiare, al desiderio di conoscere i genitori biologici, etc.».
Un dato che rimane sempre nel “nascondimento” è anche quello relativo al diritto dei bambini…
«Non avendo voce in capitolo, i bambini sono spersonalizzati, al punto che è lecito persino scartarli qualora risultino affetti da vizi e difetti (disabilità o malformazioni). Invece, i bambini hanno diritti fondamentali inviolabili, tra i quali quello di essere riconosciuti e cresciuti dai propri genitori, di avere una mamma e un papà, ma anche il diritto alla salute. E su quest’ultimo vi sarebbe molto da dire, considerato che la nascita attraverso fecondazione artificiale (o utero in affitto) aumenta i rischi [si veda qui, ndr] di anomalie genetiche, malattie degenerative, malformazioni congenite oltre che di mortalità perinatale e infantile, di nascita prematura e di essere sottopeso alla nascita (le ultime due possono provocare danni alla salute del bimbo). Sebbene poco conosciuta esiste molta letteratura scientifica che attesta questi rischi».
Rimanendo sui rischi collegati alla fecondazione artificiale, dov’è finito il diritto a un’informazione completa e trasparente?
«È quello che mi domando. Vorrei partire dal dato legale. La legge 40/204, che norma in Italia la pratica della fecondazione artificiale, all’art. 6 dice che “prima del ricorso ed in ogni fase di applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita il medico informa in maniera dettagliata (i richiedenti n.d.r.) sui metodi, sui problemi bioetici e sui possibili effetti collaterali sanitari e psicologici conseguenti all’applicazione delle tecniche stesse, sulle probabilità di successo e sui rischi dalle stesse derivanti, nonché sulle relative conseguenze giuridiche per la donna, per l’uomo e per il nascituro”. Ritengo che si debbano necessariamente includere fra tali informazioni anche quelle relative ai possibili rischi per la salute del nascituro derivanti dalla tecnica di fecondazione artificiale».
È possibile partorire e non riconoscere un bambino nato da fecondazione artificiale, come nel caso di Marco?
«La legge 40 all’art. 9 comma 1 prevede il divieto del disconoscimento di paternità “qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo”. E al comma 2 vieta alla madre del bambino nato con l’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita, anche omologa, di “dichiarare la volontà di non essere nominata” nell’atto di nascita, cioè le impone di riconoscere il bambino come proprio. È invece evidente che il Tribunale dei Minori tollera che i genitori contravvengano a tali divieti. Posso anche comprenderne il ragionamento, che immagino consista nello stabilire l’indegnità del genitore che rifiuta il figlio malato, e pure la tutela del bimbo rispetto alla possibilità che chi lo ha voluto far nascere in tal modo non si prenda cura di lui adeguatamente.
Però, a mio parere, si potrebbe almeno chiedere ai genitori che lo abbandonano, dopo averlo fatto “fabbricare” sottoponendolo al rischio di nascere malato, malformato, disabile etc. di farsi carico di tutte le spese del suo mantenimento. E non si tratta di sanzionare la decisione di non prendersi cura di un bimbo magari gravemente ammalato, che appare umanamente impossibile da giudicare. Si tratta, piuttosto, di costringere i genitori ad assumersi la responsabilità di quel bimbo che non è un prodotto difettoso, ma una persona, fragile e bisognosa di tutela, quanto meno sotto il profilo economico, che è poi quello che oggi purtroppo muove il mondo. Un’assunzione di responsabilità che dovrebbe avvenire ab origine, sin dal momento dell’espressione del consenso informato».
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