Comincia con le lodi mattutine in una basilica di San Pietro gremita il Terzo Capitolo del Monastero WiFi, perché «la preghiera innanzitutto si fa». Ripercorrendo la parabola esistenziale agostiniana, dal momento che «le Confessioni sono la più lunga preghiera mai scritta», monsignor Antonio Grappone sottolinea che ogni preghiera «richiede una relazione autentica con il Padre, poiché se non comporta la conversione, ossia il desiderio di vivere nella volontà di Dio, non è nemmeno preghiera».
La preghiera «è elevazione dell’anima a Dio e domanda di beni convenienti», recita il Catechismo della Chiesa. Dunque, prosegue monsignor Grappone, «non è una tecnica per ottenere risultati e non ha nulla a che vedere con lo yoga, bensì è risposta a Dio ci precede sempre nell’amore». Di qui «la qualità della preghiera non dipende dal nostro sforzo, funziona pure se hai mal di testa o stai cascando dal sonno, perché Dio conosce il nostro cuore. Consiste nel riconoscere la propria miseria dinanzi all’amore del Padre. Le parole che pronunciamo non sono nostre, sono parole di un Altro, (basti pensare al Padre Nostro e ai Salmi), che siamo però invitati a fare nostre». In questo modo, «riconciliandoci con Dio, la preghiera ci restituisce a noi stessi». Insomma la preghiera «non è mai tempo perso, perché Dio sa ascoltare, anche ciò che non riusciamo a esprimere». E relativamente ai periodi di aridità e desolazione spirituale, monsignor Grappone ricorda che il Padre permette tali momenti per insegnarci la gratuità e farci crescere spiritualmente, affinché possiamo essere riconoscenti al Suo amore, al di là della dinamica del do ut des nella quale comunemente ci rivolgiamo a Lui. In sostanza, il «frutto più prezioso della preghiera è la perseveranza nella fede, nella speranza e nella carità; in questo senso “chi prega si salva” (Sant’Alfonso)».
Comincia pregando due volte, ossia con il canto, la sua catechesi padre Maurizio Botta: «E chi non cerca Cristo non sa quello che cerca / e chi non vuole Cristo non sa quello che vuole / e chi non vuole Cristo non sa quello che ama». Poi, nel rilevare cosa dice la Parola di Dio della preghiera, si sofferma sulla preghiera di Gesù: «Il Padre nostro ti dà l’ordine dei desideri, è il modo per non sprecare parole cercando di convincere Dio delle cose di cui abbiamo bisogno. Le prime tre richieste segnano la brama del regno di Dio; il ‘nome’ è l’invocazione della potenza santificante di Dio. La richiesta del pane non è solo richiesta di ciò che ci serve quotidianamente e dell’Eucarestia, come solitamente viene interpretata, ma dello Spirito Santo; è la richiesta di un cuore misericordioso, per chiedere a Dio che ci liberi da Satana, dal rimanere invischiati nel risentimento, nel rancore, per non essere indotti alla spietatezza verso il fratello».
«Dentro o ti parla il demonio o lo Spirito Santo, c’è un mormorio continuo». Lo sottolinea molto bene don Pierangelo Pedretti che affronta il tema del combattimento nella preghiera. «L’inganno di abbassare la guardia è voluto dal maligno. Perciò occorre pregare ogni giorno perché il suo potere non ci domini». Citando i padri orientali, la filoautìa (l’amore smodato di sé) e la gastrimarghia (‘follia del ventre’) di Evagrio Pontico in particolare, richiama un’immagine loro cara, secondo la quale i demoni ci osservano e ci spiano, anche se non conoscono quello che c’è nel nostro cuore. Perciò il maligno comincia a tentarci con la suggestione, attraverso una fantasia allettante che ci invita a conversare con essa, ma finché non le si acconsente con la volontà, non si commette peccato. Poiché «siamo attaccati sempre sulle stesse cose», occorre anzitutto «imparare a lottare e restare svegli nel combattimento»; poi «custodire il cuore, “un giardino che, senza Gesù diventa un inferno” (Origene)». Un esercizio pratico? «Cominciare col chiedere ai propri pensieri: “Di chi sei?” e combattere i vizi, i quali diventano come un’altra pelle che il diavolo ci mette addosso, per cui scambiamo il male per il bene e giustifichiamo il nostro agire in base ai nostri comportamenti».
Sul frutto della preghiera si sofferma don Massimo Vacchetti. «Dal punto di vista agronomico il frutto non serve solo al nostro nutrimento, ma anche a veicolare il seme. La preghiera rinnova sempre l’efficacia della vita divina in me. Di qui il primo frutto della preghiera è la coscienza della propria figliolanza, la coscienza che sono figlio di Dio». Con un affondo sul contesto attuale, don Vacchetti evidenzia come questo non sia un tempo in cui mancano soltanto i ‘padri’, ma in cui mancano anche i ‘figli’. «Il secondo frutto della preghiera è la coscienza della Chiesa, la consapevolezza che la salvezza che chiedo per me è per tutti. Il terzo frutto è l’abbraccio del dolore degli altri nella carità. Insomma il frutto della preghiera è Cristo, il Corpo dato a noi perché diventiamo suo Corpo e, per l’azione del Suo Spirito, nuove creature».
«Chi fa le cose a partire da se stesso arriva a se stesso, chi le fa a partire da Dio arriva a Dio», afferma don Fabio Rosini nel corso dell’omelia. «La preghiera non è cercare Dio, ma farsi trovare da Dio, non è opera nostra. È stare come bimbi e farsi salvare, perché da questa esperienza di grazia deriva la nostra forza. La forza della preghiera è nella consapevolezza di dipendere, poiché non posso fare da solo. Pregare è come prendere il sole!», esclama ancora don Fabio Rosini mentre commenta la preghiera dell’angelo custode, la quale «ci dice che io sono un tesoro da custodire e che quando sto davanti a Dio come figlio, ho intimità con Dio, Dio è nemico dei tuoi nemici (laddove noi, invece, facciamo amicizia coi nostri ‘nemici’. Dio non è il nostro ‘compagnone’!) e l’angelo ti fa conoscere il Suo volto».
L’episodio dell’emorroissa è emblematico della preghiera del cuore. Lo rivela don Luigi Maria Epicoco, sottolineando «l’incontro personale profondo con Dio nella preghiera che risignifica la nostra vita. Perciò chi prega si salva. E si può pregare col corpo, con le emozioni, con gli affetti e il ragionamento e, se tutto ciò esprime una relazione, allora è preghiera autentica. Ma il vero luogo dove Dio abita è il nostro cuore». Allora «fare la preghiera del cuore è permettere a Dio di fare del nostro cuore quello che vuole. Non bisogna far nulla, ma lasciare a Dio di pregare in noi, allo Spirito di evangelizzarci, cioè di lavorare, consolare, guarire e cambiare i nostri pensieri, parole e sentimenti per assumere lo stesso pensare e sentire di Cristo e rendere presente il Figlio come Egli rende presente il Padre».
E dinanzi a questa presenza viva e vera di Cristo il popolo del Monastero WiFi si è ritrovato in ginocchio durante l’adorazione eucaristica finale guidata da don Vincent Nagle per riscoprire cosa significhi adorare: lasciarsi amare e trasformare dallo Spirito Santo, ‘ospite dolce dell’anima’, a immagine del Figlio.
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