XXVIII Domenica, anno C, Vangelo Lc 17,11-19
L’evangelista, come narratore, scrive che solo uno tra i dieci lebbrosi tornò indietro per ringraziare Gesù per la cosiddetta purificazione. E tale ri-“conoscenza”, superiore all’atteggiamento umano della semplice gratitudine, è ben descritta dall’autore stesso e poi confermata dalle parole del Salvatore che sembra congratularsi: il ritorno del samaritano è associato alla lode, alla gloria e anche all’adorazione, quest’ultima espressa da un linguaggio non verbale più eloquente delle parole proferite ad alta voce, ovvero il gesto del prostrarsi.
Raccontare in questi termini una guarigione più spirituale che fisica, perché si domanda pietà e il miracolo si realizza solo in virtù della fede (tema su cui ci si è soffermati sette giorni fa), aiuta a non fermarci alle interpretazioni moralistiche e superficiali che si limitano al galateo umano. Davvero c’è bisogno di disturbare Dio o aggrapparsi alla religione per insegnare a dire «grazie»? Tutti belli gli inviti a non dimenticare questa parolina importantissima, soprattutto nell’ordinarietà delle relazioni; logico anche dare un colpo al cerchio, dopo la martellata ai servi che devono fare il loro dovere e basta; emozionanti pure le notizie dove un immigrato è protagonista di gentilezza e viene presentato come modello di convivenza civile…
Ma questa domenica si parla di salvezza, non di bon ton; è un messaggio pieno di universalità, non un vademecum di buona educazione. C’è la promessa di potersi rialzare che non esclude nessuno, perché Dio «non fa preferenze di persone», «vuole che tutti gli uomini siano salvi» e aspetta che ciascuno possa dire con Naamàn: «ora so che non c’è altro Dio su tutta la terra». Fondamentalmente, è il primo comandamento. Sì, magari non si è proprio tentati dall’idea di seguire Allah, Geova, Buddha oppure altre divinità o modelli… ma la convivenza con nuove forme idolatriche è innegabile. Si pensi solo al benessere fisico, mentale, psicologico: un business di chi lucra sullo stress e sul nervosismo e che non conoscerà crisi. Qua il rischio di essere etichettati come negazionisti o complottisti è sempre in agguato: la libertà di espressione, seppur logicamente e razionalmente fondata, si ritrova «incatenata». Così, se si tenta di spiegare che la persona è fatta di anima e che la beatitudine, il senso della vita, la piena realizzazione e il paradiso non si raggiungono solo con un farmaco, un integratore, un esercizio ginnico o una dieta, si è condannati alla gogna.
Comunque, «sopportando ogni cosa», non si teme di predicare che «chi prega si salva». L’invocazione dei dieci ammalati è sincera, perché spinta dalla sofferenza a cui si aggiunge l’esclusione e la solitudine, ma solo la preghiera dell’unico che ritorna è vera salus, perché fatta di lode, gloria e adorazione e dunque espressione di fede sincera. Le sette “richieste” del Padre nostro hanno uno spessore diverso se precedute dalla contemplazione di colui che è «nei cieli», ringraziare Dio, al mattino e alla sera, per «avermi creato, fatto cristiano e conservato in questa notte / in questo giorno» è un atto ancor più nobile se egli, anzitutto, si sente dire che lo adoro e lo amo. Oggi andiamo in chiesa per il rendimento di grazie con la stessa docilità dei lebbrosi che corrono verso i sacerdoti, ma ritorniamo «rinnovati dall’incontro con la parola» e propensi a «render gloria con la nostra vita».
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