XXX Domenica, Vangelo Lc 18,9-14
Sì, è pieno di persone invidiose. Non riuscendo a raggiungere l’alto livello del prossimo, lo si denigra nel tentativo di abbassarlo, affinché stia sotto di me. Quello di non accettare gli altri perché incapaci di accettare se stessi è quasi un assillo per taluni, al punto di passare la vita a controllare sistematicamente cosa fanno e cosa non fanno gli altri. Illusi del e nel proprio ego, fanno loro la convinzione del Marchese del Grillo: «Io so’ io e voi…» (va be’, lo sapete). L’esistenza e persistenza di queste lingue con il bastoncino di legno e la capocchia di solfuro di fosforo e di clorato di potassio è documentata dai tempi di San Giacomo e il Papa è costretto più volte a denunciare tutto il chiacchiericcio nella Chiesa.
Ma pazienza! Dispiace per loro… però, quando noi ci ritroviamo destinatari di tali deliri di perfezione e cotanta supponenza, non consideriamoci proprio vittime. La calunnia fa male, ma non preoccupiamoci di «preparare la nostra difesa»: è davvero beatitudine promessa ai perseguitati da parte di chi «non aprì la sua bocca, come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori». Gesù sa, come suggerisce una coscienza pura e illuminata, e non bisogna aver paura; si combatte, si corre e si conserva, come Paolo.
Il Signore conosce e ascolta. Egli – lo dice oggi il Siracide e lo ricordavamo il 9 ottobre – «non fa preferenze di persone» e ha una predilezione particolare per chi è «povero in spirito», per coloro che accolgono la vita così come è, che non negano il male, la fragilità, il peccato e li affidano alla bontà celeste, come un’offerta che «attraversa le nubi» più nere di un’esistenza cupa e triste.
La presunzione, invece, non ha bisogno di relazioni; l’arrogante rimane intrappolato nell’inganno dell’autosufficienza e non gliene frega di entrare in comunione. Il fariseo è a posto: si arrangi! Nessuno gli ha imposto la decima di tutto, digiunare due volte non è richiesto. Non c’è paragone con la pericope evangelica di due settimane fa, eppure nel ringraziare ignora la lode, la gloria e l’adorazione dovuta a Dio, riservando queste azioni per se stesso.
Meglio battersi il petto. Possibilmente anche a messa, nei riti d’introduzione quando nell’atto penitenziale si recita il Confiteor, picchiare, scuotere… non accarezzare dolcemente con la manina come chi toglie bricioline da sotto il mento. Implorare, con il lebbroso, con la vedova, con il pubblicano, uno sguardo di pietà. Questo “fa giustizia”, “giusti-fica”, rende giusto. Come la scorsa domenica, ritorna in queste letture «il giudice», il quale «non condanna» perché «giudice giusto» e «giustifica».
Giustificazione come dono di grazia, ottenuta in virtù del Battesimo per mezzo dello Spirito, il quale ci rende partecipi del mistero di morte e risurrezione. Giustificazione che converte e riconcilia, che permette di accogliere la giustizia di Dio e che stabilisce la libera cooperazione all’iniziativa del Signore. Giustizia come opera più eccellente dell’amore divino e implica la santificazione di tutto l’essere. Lo dice il Catechismo, ma vale per chi si batte il petto, si umilia e si fa aiutare con fede.
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