III Domenica di Pasqua (Lc 24, 13-35)
Il brano di Vangelo che oggi la Chiesa ci annuncia parte dal racconto di due discepoli che se ne vanno da Gerusalemme tristi, la sera della domenica di Pasqua. Ma la passione con cui dibattono degli eventi appena accaduti ci rivela che essi sono quasi come degli innamorati sconfitti, come amanti abbandonati.
La loro tristezza non è un sentimento di melanconia banale, né di sconfitta. Anzi, a ben guardare era stata annunciata dal Signore stesso: «Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia […]. Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia» (Gv 16, 20b.22).
Gesù stesso suggerisce la radice di quel sentimento: questa tristezza può essere sperimentata solo da chi è stato con il Signore, poiché la ragione del loro vivere e del loro stare insieme è la Sua presenza. Senza di Lui non può che esserci una tristezza, anche per noi. Come possiamo, dopo aver camminato con Lui, vivere dentro le vicende della nostra vita da soli? Come possiamo affrontare le grandi questioni dell’esistenza come le singole circostanze, senza che dentro di esse ed oltre ad esse possiamo stare con Lui? È forse sufficiente il Suo insegnamento, il Suo ricordo? No. Tutto, in coloro che lo hanno conosciuto, che sono stati sedotti da Lui, desidera soltanto reincontrarLo, riabbracciarLo. «Oggi molti hanno una concezione limitata della fede cristiana, perché la identificano con un mero sistema di credenze e di valori e non tanto con la verità di un Dio rivelatosi nella storia, desideroso di comunicare con l’uomo a tu per tu, in un rapporto d’amore con lui. In realtà, a fondamento di ogni dottrina o valore c’è l’evento dell’incontro tra l’uomo e Dio in Cristo Gesù. Il Cristianesimo, prima che una morale o un’etica, è avvenimento dell’amore, è l’accogliere la persona di Gesù. Per questo, il cristiano e le comunità cristiane devono anzitutto guardare e far guardare a Cristo, vera Via che conduce a Dio» (Benedetto XVI, Catechesi, 14 novembre 2012).
Questa tristezza non è lo sconforto cinico del mondo, che cerca sempre nuovi modi per mascherarsi, per trovare altrove colpevoli dei mali che lo affliggono e per divertirsi, cioè per “divergere”, per deviare dal proprio cuore più profondo. «La tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte» (2Cor 7,10). La tristezza del discepolo, al contrario, parte proprio dal cuore – cioè dall’identità più profonda – («Nonne cor nostrum ardens erat in nobis? / Non ardeva forse in noi il nostro cuore?») e fiorisce nella preghiera, perché il Signore resti con noi: «Mane nobiscum, quoniam advesperascit / Resta con noi, perché si fa sera».
Ogni preghiera, in fondo, nasce da questa tristezza che si rivela essere un dono prezioso. Nulla basta più al discepolo, che attraversa le vicende del secolo desiderando che accada ciò che nella fede pregusta: l’incontro definitivo e totale con Cristo. Per questo, in tutto cerca e vede le tracce della Sua presenza, ma sa che nulla lo può saziare se non il Suo Signore.
Dentro i giorni – anche dentro la grave crisi che la Chiesa sta attraversando – anche noi, come Cleopa e il suo compagno potremmo essere indotti ad andarcene, addossando ad altri le colpe, andando e discutendo. Ma il Signore sta già camminando con noi: soltanto i nostri occhi sono trattenuti dal riconoscerLo. A ciascuno di noi sta poter scegliere di far fiorire la nostra tristezza in preghiera. A volte troveremo un compagno che ci aiuterà a riconoscerLo («È il Signore!», Gv 21,7). Altre volte Lo riconosceremo presente nella Santa Messa, anche se ci capita di frequentarla “solo per abitudine” (la consuetudine alle cose buone può certamente toccare anche i cuori più freddi e induriti) o nella tenacia della faticosa orazione. Egli certamente non ci lascia soli: «Nel nostro cuore, nel cuore di ciascuno di voi, ci sia sempre la gioiosa certezza che il Signore ci è accanto, non ci abbandona, ci è vicino e ci avvolge con il suo amore» (Benedetto XVI, Catechesi, 27 febbraio 2013).
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