XXXII domenica del Tempo Ordinario – Vangelo Lc 20, 27-38
Novembre è notoriamente il periodo “dei morti”. Il ricordo condolente per molti si fa concreto nell’incedere verso i luoghi in cui i cari estinti riposano nell’attesa dell’ultimo giudizio. Ripenso a quando ragazzo fui iniziato al buon proposito di recarmi al cimitero con cadenza regolare quale atto di pietà dovuto a chi è passato all’altro mondo e mi fu prossimo. Conscio di non aver vissuto alcunché di macabro in quelle tarde mattine domenicali, mi intrattenevo in una litania di Réquiem aetérnam osservando attento volti noti e sconosciuti, ma poi divenutimi familiari a ragion del mio continuo passar dinanzi alle loro lucide lapidi infiorate. Il silenzio assordante, la luce tenue dell’autunno, il mistico sentore di presenze amiche conducevano a riflettere sul domani eterno che attende ciascuno. Mi attanagliava un senso di disagio, allora come oggi, nel sentir dire, anche da buone persone, non tanto l’ovvio dispiacere dell’assenza di chi più non c’è, bensì il fatto che li pensassero dispersi chissaddove.
Rimugino ancora con infinita mestizia sull’“ovunque ora siano”, manchevole di aver obliato l’aldilà cattolico, e – nel gioco delle idee – mi si riaffaccia alla mente la disputa che il Cristo ha ingaggiato contro la setta dei Sadducei, i quali dicono che non c’è risurrezione. Ciò che più colpisce, anche nell’odierna mentalità, è l’intravvedersi della mancanza di speranza: se veniamo dal nulla per finire nel nulla, niente ha valore nel nostro quotidiano. E si dovrà piangere amaramente nel vedere lo scorrere del tempo che impietoso ci avvicina alla fine di ogni cosa. Perché credere o meno in un Dio giusto e misericordioso, amare il fratello, fare del bene, rispettare le regole per una convivenza civile, se poi uno sarà inglobato in un vuoto senza senso?
Per nostra ventura, il tranello sotto forma di quaestio non fa presa su Gesù, che lo scalza: il matrimonio e il conseguente procreare sono condizioni legate all’esistenza terrena. È naturale, persino per la Scienza divinizzata, che ci si preoccupi della sopravvivenza della specie, ma – ci rammenta il Messia – nell’eternità non sarà necessario nessun legame sponsale, perché tutti saranno uguali agli angeli. Per nostra grazia, l’Onnipotente si era già voluto mostrare a Mosè dal viso sfolgorante come il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe; il Figlio dell’uomo conferma: il Signore del creato – ipse dixit – non è dei morti, ma dei viventi. Ergo, noi siamo i figli della risurrezione, coloro cioè che sono destinati a risorgere e che troveranno nella Deità la sorgente della vita senza fine. Sicché, saranno investiti non solo nell’anima ma anche nelle membra di carne, in un mistero che si può solo intuire. Risuonano nell’intimo le parole del Paradiso (XIV, 64-66) del sommo poeta Dante, dove i beati dell’Empireo dimostrano chiaramente il desiderio di riunirsi non solo ai loro corpi mortali – oramai trasfigurati –, ma anche alle persone conosciute in statu viae: ma per le mamme, / per li padri e per li altri che fuor cari / anzi che fosser sempiterne fiamme (dalle madri, ai padri e agli altri che furono a loro cari sulla terra, prima che diventassero splendori fiammeggianti in eterno).
Licenziando questi pensieri celestiali, la preoccupazione mi prende improvvisa davanti alle ultime sillabe del divin Maestro pronunciate a confutazione di chi – posizione assai moderna, seppur antica – si fonda su un materialismo religioso, dove se si concede l’esistenza dell’Essere di per sé sussistente, non si coltiva tuttavia nessuna attesa ultraterrena. Non è più, quindi, la teologica controversia a inquietare l’animo, ma quella parola rivolta in modo diretto all’ascoltatore della buona novella, senza possibilità che la coscienza tergiversi. Il Dio dei viventi è tale, perché tutti vivono per lui. È un versetto decisivo con annessa la prerogativa di impensierire un animo libero e onesto: siamo sicuri – chiede il cuore e vuol risposta – di vivere per lui?
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