XXVII Domenica, anno C, Vangelo Lc 17,5-10
Poco importa aver visto in vita semi di senape o il morus che con i suoi rami abbraccia pure la grande letteratura da Ovidio a Dante; si potrebbero parafrasare i versetti lucani con altre figure più comuni e quindi accessibili all’uomo del terzo millennio, cercando di emulare la capacità comunicativa dell’unico maestro, ma non è detto che la Parola di Dio abbia bisogno di aggiunte complementari. È comunque chiaro il contrasto tra il minuscolo e il gigante, come domenica scorsa tra gli opposti del poveraccio di nome Lazzaro e dello spensierato ciccione, quasi a suggerire che la qualità della fede non necessita di essere quantificata con un’unità di misura.
Due verbi, presi dalla seconda lettura e della pericope evangelica odierne, parlano però di grandezza: «ravvivare», come la fiamma del fuoco che aumenta la sua vampata, e «accrescere». Forse è importante partire dalla base: «cosa si intende per fede?» è la domanda fondamentale per capire il nocciolo della questione.
La risposta arriva oggi con due immagini, la prima già citata e la seconda del «servo “inutile”»; e sarà esplicitata nelle domeniche successive, coerentemente a numerosi tentativi di Gesù di correggere ogni concezione formalistica o peggio contrattuale di una religiosità fatta di dogmi e/o di norme, nel desiderio di restituire la verità di un legame caratterizzato dalla fiducia e dalla disponibilità.
Più si comprende con umiltà la propria creaturalità, la piccolezza della fragilità umana, meglio il bisogno di essere aiutati trova pronto riscontro nella paternità del Dio misericordioso. Spesso nel confessionale ci si accusa di avere “poca fede” e tale constatazione è quasi sempre associata al non sentirsi preparati e forti davanti a prove e difficoltà ordinarie o straordinarie, addirittura in situazioni più o meno paragonabili al contesto in cui scrive Abacuc. Ebbene, anche qui, nel paradosso ben spiegato da Paolo nella sua seconda lettera indirizzata ai corinzi, l’umiltà di deporre ogni presunzione, quando si confida maledettamente su se stessi, è davvero l’humus perché un solo granellino trasfiguri tutto e specialmente noi. Farsi piccoli è la grandezza che trasforma ogni giogo in dolcezza e rende qualsiasi carico leggero.
Laddove esiste ancora la novena di Natale (perché ancora non sono passati i laureati a salvare l’Avvento dalle paraliturgie), c’è sicuramente un fedele che si sarà ricordato dell’Invitatorio: «si moram fecerit, expecta eum, quia veniet et non tardabit». Dio viene come bambino, non come supereroe; visita il suo popolo facendosi piccolo e assumendo la condizione di servo.
A maggior ragione, allora, illuminati dallo splendore di Betlemme fino alla gloria di Gerusalemme, dall’esigua mangiatoria alla misera croce, non rivendicare nulla è l’atteggiamento «del giusto», di chi come servo non fa calcoli, ma si preoccupa solo di dimostrare con totale disponibilità di sentirsi quasi solo in debito.
Se di primo acchito i toni appaiono severi oppure ingrati, in realtà si capisce che la prima pasqua settimanale di ottobre non riporta un rimprovero, ma un incoraggiamento da parte di chi, mite e umile di cuore, chiama per regalare ristoro. La premura di Gesù, da sola, basta per capire che di fede ne basta poca, purché autentica e intesa quale virtù teologale, e che cresce grazie a lui stesso che la dona e che prega per Pietro e per noi affinché essa non venga meno.
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