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«La missione non è riversarsi nel sociale ma annunciare Cristo»
NEWS 25 Ottobre 2023    di Samuele Pinna

«La missione non è riversarsi nel sociale ma annunciare Cristo»

Da un’idea di don Samuele Pinna prende vita “Dietro le quinte”, una rubrica senza periodicità che vuole incontrare quei personaggi importanti che lavorano per il bene e non sempre appaiono in prima fila, ma appunto sono spesso “dietro le quinte”. Questa prima puntata vede protagonista il nuovo Vicario episcopale per la zona pastorale di Milano, monsignor Giuseppe Vegezzi. (L.B.)

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Tra gli incarichi ecclesiastici quello di Vicario episcopale è, forse, tra i meno gratificanti, perché il servizio richiede di risolvere molte questioni a nome e per conto del Vescovo, rimanendo dietro le quinte, senza ricevere eccessivi apprezzamenti pubblici. A causa di numerosi grattacapi quotidiani può capitare a coloro che svolgono questa funzione ecclesiale di dimenticarsi del compito principale di conoscere le parrocchie e soprattutto i presbiteri a loro affidati. Non sembra, però, il caso di monsignor Giuseppe Vegezzi, classe 1960, il quale ribadisce che «il lavoro del Vicario è soprattutto l’incontro con i preti».

Sacerdote pacato, dallo sguardo sapiente e dal pensiero pragmatico, elevato al terzo grado dell’Ordine dal 2020, è stato chiamato a guidare la zona pastorale della città di Milano dopo Varese, dove ha lasciato «una parte del cuore»: «Pur con dinamiche diverse – egli afferma –, Milano ha il vantaggio di poter essere un laboratorio di evangelizzazione che ha il compito di interrogarsi su come il Vangelo possa essere presente oggi nella nostra società, spesso indifferente, perché presa da tante altre cose». E precisa: «il cardinal Colombo parlava del lucignolo fumigante – che vale ancora –, il che vuol dire che è possibile valorizzare il significato della fede, perché vi è una richiesta e un bisogno nell’uomo, il quale desidera essere accompagnato in una ricerca di senso». Il neoeletto responsabile della cura pastorale della metropoli lombarda le riconosce – senza superbia – di essere ancora un punto di riferimento sia per l’Arcidiocesi sia per la Chiesa italiana. Infatti, confida: «quando converso con i mie confratelli nell’episcopato in Italia, sovente s’interessano: “Ma cosa fate a Milano?”, a dire che c’è uno sguardo di chi intuisce che qui il mondo viene rappresentato in tutte le sue parti».

Scruto il mio interlocutore: ha un eloquio sciolto, è empatico, non sorvola sulle questioni più spinose e soprattutto non propina ricette già preconfezionate. Nondimeno, propone a tutti i battezzati di essere “originali”, com’è uso dire il suo arcivescovo Mario Delpini, e spiega con un umorismo che tradisce le sue origini nervianesi: «Nei nostri paesi, quando uno è detto “originale” significa che è un po’ matto, invece bisogna essere originali nel senso di “vicini all’origine”, a Gesù, al suo stile».

Se il progetto sempre valido della Chiesa è quello dell’accoglienza, tuttavia – continua il Presule – «si deve stare attenti a non abbassare le proposte: senza dare nessun giudizio, l’errore che a volte facciamo nelle parrocchie è di abbassare il tiro per non chiedere troppo. A mio avviso è sbagliato, dobbiamo chiedere il giusto, puntando in alto: proposte qualificate, ovviamente commisurate, ma evitando il rischio di banalizzare alcune nostre iniziative così che possano venire “tutti”. Non la vedo la carta vincente».

La Chiesa sembra essere apprezzata dalla società perché compie innumerevoli opere di misericordia per alleviare le più varie sofferenze, ma quando indica ciò che è bene e denuncia il male a livello morale è mal tollerata. L’egregio Pastore seduto davanti a me non si scompone: «Il sociale è una conseguenza dell’insegnamento di Gesù di amare i fratelli e di essere una realizzazione pratica del comando del Signore. Dobbiamo, però, ricordarci che ogni iniziativa caritativa è vissuta nel nome di Cristo, e quindi se aiuto anche il mio fratello musulmano, lo faccio in nome di Cristo. A volte, con la scusa del rispetto – “io non voglio convertire gli altri” – non mettiamo in atto l’annuncio missionario. La società, inoltre, ha bisogno della Chiesa per non implodere davanti alle richieste d’assistenza, come lo è stato nei secoli precedenti quando sono stati fondati gli ospizi, gli ospedali, etc.; mentre oggi nel soccorrere i bisognosi si deve ritrovare l’anima dell’agire, che non è la sola filantropia. Il riversarsi nel sociale non è la nostra missione, ma lo è proclamare la buona novella di Gesù: questo è lo scopo prioritario, e passa anche attraverso la carità che non usiamo per imbrogliare gli altri, attirandoli a noi, ma perché è una conseguenza del mandato del Maestro». Ergo, l’amore verso Dio si traduce in amore verso il prossimo. Il Monsignore si fa critico, ma è una valutazione a beneficio delle coscienze: «i non cristiani dovrebbero guardare le nostre realtà ecclesiali per intravvederne la bontà. Tuttavia, non so quanto si possa dire delle nostre comunità, dei movimenti e delle associazioni cattoliche: “guarda come si vogliono bene, condividono le cose, e si danno da fare per gli altri…”. “Volersi bene” significa sapere che stiamo tutti lavorando per la stessa causa, ciascuno con il proprio carattere e con il proprio stile, senza togliere che posso condividere in pieno quello di qualcuno e un po’ meno quello di qualcun altro; ed ecco la ragione per cui ognuno è poi chiamato a verificarsi. La solita frase che la gente ripete è: “La tal persona va in chiesa e si comporta male, allora io non vado più per questo motivo”. Se questa è (e rimane) una scusa ingiustificata, ha un fondo di verità: chi si professa credente deve esprimere in modo coerente il contenuto del Vangelo. Da qui, non deve mancare il coraggio di dire anche a chi frequenta: “No, questo atteggiamento non è cristiano!”». È lampante l’esigenza di una formazione umana e spirituale per i cosiddetti “vicini”, i primi collaboratori e chi detiene una qualche responsabilità. Il Vescovo si fa serio, pur lasciando trasparire i suoi tratti bonari: «La formazione è fondamentale, non si deve correre l’errore che di tanto in tanto sento nei preti quando affermano: “I laici non sono formati, quindi non facciamo niente”. No, una formazione ha un forte significato per chi è incaricato a rappresentare qualche aspetto della Chiesa, che sia quello della carità, della catechesi o altro. La formazione è fondamentale, senza pretendere di fare del semplice battezzato un laureato in qualcosa, ma aiutando a capire che chi collabora ha bisogno della formazione, e di momenti in cui deve tornare alla sorgente del proprio agire. Sono convinto che si debba partire con quanto si ha, poi man mano ci si forma, si corregge il tiro e si vede cosa si può fare per migliorare. Spesso capita di dare per scontato che i nostri segni parlino da soli, ma non è così. Alcuni dei nostri simboli non sono compresi neppure da chi si percepisce vicino, perché non sono più immediati. Una volta lo erano, perché la gente era formata a riconoscerli».
C’è, dunque, una reale urgenza per riproporre una crescita integrale della persona, perché oramai si sono perduti anche i rudimenti basilari di una spiritualità cristiana. Mi accorgo che il destinatario dei miei quesiti tira dritto alle conclusioni: «Non esiste più una societas christiana, non dobbiamo dare per scontato nulla. C’è il Cristianesimo con i suoi segni, che dobbiamo insegnare di nuovo a leggere. Abbiamo, inoltre, qualcosa da trasmettere sul senso della vita, della morte, della sessualità, dell’affettività… e non perché tutti debbano pensarla come noi, ma per annunciare un messaggio in purezza, evitando il rischio di essere noi ad assimilarci al pensiero di chi non ha avuto la grazia d’incontrare Cristo. Senza dimenticare che il dato cristiano è sorretto dalla ragione umana ed è motivato biblicamente, culturalmente, sociologicamente. Il Signore ci chiede d’intuire quali siano le strade per essere una Chiesa sempre più di Gesù, e non secondo i nostri pallini, senza dare niente per scontato e impegnandosi a trasmettere il nocciolo della fede, in questa società – ormai “liquida” – da noi costruita».

Il presentarsi “fluidi” è l’altra faccia della medaglia del male che affligge la postmodernità, ossia la dittatura del relativismo che Benedetto XVI aveva denunciato nel suo pontificato. Se si vuole usare un sinonimo è l’individualismo imperante: «Esatto – mi sento rassicurato –, e condivido in toto l’analisi dell’arcivescovo Mario: è l’individualismo che sta distruggendo l’Europa, perché ciascuno pensa a sé stesso». È, in fondo, sostenere – con Romano Guardini – che l’occidentale non è un occidentale, ma un occidentalista. Vegezzi si insublima: «Se parlo d’Europa, l’individualismo è radicato in ciascuno, il soggetto diviene la verità, non ti permette di dire nulla: è lui a stabilire il senso, a decidere in cosa credere. Ciò porta anche a non esserci più nessuna verità, perché questa è ridotta all’individuo. L’impegno ecclesiale è far comprendere che l’individualismo non è la radice dell’uomo, che l’io non è solo, ma è dentro un contesto di rapporti di comunione. Si può rifiutare il pensiero cattolico, ma non si può ignorare l’umanesimo cristiano – pur in crisi –, perché è l’unico umanesimo rimasto nel nostro periodo storico, non ce ne sono altri. La deriva è, altrimenti, quella del soggettivismo, dove ognuno decide per sé».

Sotto una nuova veste, è ancora la questione di una verità immutabile e non relativa, perché – ammonisce il Vicario milanese – «la verità la possiede Gesù Cristo, anzi coincide con Lui, e noi cerchiamo di capirla, di metterla in pratica e di trasmetterla». Eppure se è normale che nella Chiesa convivano anime diverse, non è sano che queste conducano a schieramenti di “destra” e di “sinistra”. Domando: le divisioni sono reali o uno spauracchio? La risposta si fa delicata: «Mi appaiono più come uno spauracchio… io guardo alla Chiesa italiana, con i suoi tanti vescovi, assai diversi tra loro, e non rintraccio questa grande divisione, mi pare più un pensiero dei social e dei giornali». Incalzo: è innegabile, però, la presenza dei cosiddetti “progressisti” e “tradizionalisti” nella Chiesa, pronti ad accendersi su ogni questione: «È ovvio – mi si replica – che nella Chiesa ci sono alcuni un po’ più conservatori e altri un po’ più possibilisti, eppure noto in tutti, sia da una parte che dall’altra, il desiderio di far esistere oggi una Chiesa vera. Certo, sulle tematiche dibattute qualcuno è un po’ più largo e qualcuno un po’ più stretto…».

Mi convinco: tra i due poli nessun estremo è corretto, perché è la verità – e non l’ideologia – a dover essere la sola direttrice da seguire, capace di condurre a un equilibrio che consente di mettere in campo le scelte giuste. Nel panorama odierno è difficile, se non impossibile, oltrepassare la cortina ingannatrice del politicamente corretto, dove alcuni temi – come l’aborto, l’omosessualità, etc. – sono i nuovi dogmi indiscutibili. Non mi taccio, allora, e chiedo conto del Sinodo tanto chiacchierato. Il nuovo responsabile della città di sant’Ambrogio è a suo agio, si fa pensoso e misura con cura i termini: «Per quanto riguarda il Sinodo, lo valuto come un momento provvidenziale se arriverà a prendere alcune decisioni che ci aiutino a essere Chiesa nel nostro contesto ben preciso. Condivido, pertanto, la necessità di quest’assise per cercare di capire cosa il Signore ci chiede adesso, in questo tempo che stiamo vivendo. Le due anime in lotta mi pare non siano così presenti nel panorama italiano, perché tutto sommato la linea è di affermare la necessità di un rinnovamento, tenendo presente che delle basi fondamentali ci sono già e non bisogna cambiarle. Andrebbero, invece, modificate alcune modalità e o stili».

Desidero delucidazioni, e sono subito accontentato: «Facciamo l’esempio, prima si accennava all’omosessualità: decenni addietro uno veniva considerato uno scomunicato, adesso – pur non giustificando – si tratta di dire: “Va bene, t’accogliamo così come sei, non sei il paradigma perfetto, perché noi crediamo nell’amore tra un uomo e una donna, eppure non ti buttiamo via…”. Il che non vuol dire fare alla Ponzio Pilato che se ne lava le mani, ma significa accogliere, cercando di fare il bene e indicando una via percorribile verso la verità che fa liberi. Non si vuole svendere la dottrina cristiana, perché è immutabile e non ce ne sono altre, ma di ristudiare alcune modalità con cui approcciarsi alla gente, per far giungere loro la buona notizia. Ed è evidente che ci siano differenti strade per arrivarci, senza dimenticare la pluralità di cui il Sinodo è frutto: la Chiesa è già diversa in Italia, figuriamoci se il confronto è con il mondo intero».

Non sono assenti aspettative per l’incontro ecclesiale: «Sì, sul Sinodo ripongo fiducia. Qualcuno è un po’ contrariato, dichiarando che è inutile coinvolgere i laici. È legittimo, invece, sentire il loro parere in quanto cristiani battezzati, ma la sintesi è e deve essere del Magistero. Sono i vescovi a stabilire cosa fare, una volta che li hanno ascoltati». Afferro che il servizio dell’autorità, di assumersi cioè la responsabilità della guida (e, quindi, delle decisioni) non può essere demandato: «non è per forza sbagliato che alcuni laici votino al Sinodo su alcune posizioni, esprimendo il senso del popolo cristiano. Ma dopo è soltanto il Magistero che deve fare la sintesi e arrivare ad alcune conclusioni. Questi passaggi non mi spaventano né mi creano problemi. Al contrario, lascia più perplesso il meccanismo per arrivarci, la fase narrativa o sapienziale, che sono paroloni per dire: “Prepariamoci e arriviamo pronti”. Pur condividendo questo cammino, è innegabile la fatica per far intendere che il pensiero trasmesso non deve essere quello dei singoli delegati, ma della Chiesa particolare o del gruppo ecclesiale che sta alle loro spalle. Del resto, la fase sapienziale ha fatto propendere per alcuni aspetti che magari al Sinodo saranno accentuati o scartati in vista di quanto si intuisce essere più urgente per il bene della Chiesa universale. L’importante è che lo Spirito possa illuminare i partecipanti, senza cedere alle logiche della destra o della sinistra, dei conservatori o dei progressisti».

Il tempo è passato veloce e fiuto che occorre congedarsi, ma non posso tacitarmi e chiedo prima dei saluti un’indicazione da regalare alla Chiesa di Milano, ma che si può estendere a quella cattolica. Monsignor Giuseppe Vegezzi non si tira indietro: «Suggerisco di vivere il Vangelo, cercando di metterlo in pratica e sapendo che è necessario conoscerlo. Per far questo, si deve avere la disponibilità a lasciar parlare il Signore, e il modo più alto in cui Lui entra in dialogo con noi è l’Eucarestia domenicale. La Santa Messa è il centro, quale luogo privilegiato in cui ascoltare Dio».

Tra il serio e il faceto il Vescovo si zittisce con un Sia lodato Gesù Cristo, e non mi rimane che ribattere con un Sempre sia lodato prima di accomiatarmi o – per dirla alla meneghina – menà i tòll.

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