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La Mexico City Policy funziona. Lo dicono gli abortisti
NEWS 12 Giugno 2018    di Ermes Dovico

La Mexico City Policy funziona. Lo dicono gli abortisti

La Mexico City Policy, stabilita per la prima volta nel 1984 da Ronald Reagan e sempre sospesa dai presidenti democratici (cioè Clinton e Obama), funziona. Tale norma, che impedisce di finanziare con fondi federali le organizzazioni non governative che praticano aborti all’estero come metodo di pianificazione familiare o fanno propaganda per depenalizzare le legislazioni nazionali in materia, è stata reintrodotta nel gennaio 2017 con uno dei primissimi atti esecutivi di Donald Trump. A confermare la sua efficacia sono proprio le lamentele degli abortisti, che la chiamano spregiativamente global gag rule (“legge bavaglio”) e martedì scorso, attraverso il Center for health and gender equity (Change), hanno pubblicato un rapporto di 115 pagine per dire in sostanza quanti danni la Mexico City Policy stia facendo alla “salute”, concetto che – è bene non dimenticarlo – nella visione abortista equivale a poter sopprimere, con l’avallo della legge, una vita umana innocente che aspetta solo di venire alla luce.

Come ricorda Rebecca Oas di C-Fam, un istituto di ricerca pro-life con focus sul diritto internazionale e sul dibattito in sede Onu, sotto Trump la protezione ai nascituri garantita dalla Mexico City Policy è stata estesa dall’ambito della pianificazione familiare a tutti i fondi americani riguardanti la salute globale, assumendo la denominazione di Protecting life in global health assistance (Plgha; “Proteggere la vita nell’assistenza alla salute globale”). Il perché sia stata operata quest’estensione lo spiega bene la stessa Oas: “Per decenni, la lobby globale dell’aborto ha lavorato sodo per includere la promozione dell’aborto in un’ampia gamma di progetti e agende, dalla salute materna alla pace e sicurezza globale, fino all’aiuto umanitario”.

Il fronte antinatalista ha cercato di compensare la perdita dei fondi statunitensi per l’estero attraverso la campagna She Decides (lanciata l’anno scorso da diverse agenzie dell’Onu, dal commissario europeo Neven Mimica e dai governi di Belgio, Danimarca, Olanda e Svezia), che secondo il documento di Change ha raccolto fino a marzo 2018 ben 450 milioni di dollari. Troppo pochi, secondo gli abortisti, in confronto alle restrizioni sugli 8,8 miliardi di dollari investiti complessivamente dagli Usa in programmi di salute: una torta alla quale colossi come l’International Planned Parenthood Federation e Marie Stopes International, i due più grandi gruppi abortisti che si sono scagliati contro l’estensione della Mexico City Policy, non intendono rinunciare facilmente, pur continuando a operare in un campo e secondo un modello di business del tutto contrario alla salute, tanto dei bambini quanto delle madri (basti pensare alle altissime percentuali di donne che soffrono la sindrome post-abortiva, fatto che le campagne abortiste non ricordano mai). Per questo vedono la politica adottata da Trump come la peste.

Gli abortisti sono colpiti nei loro interessi soprattutto in Africa, il continente che è da tempo al centro della colonizzazione ideologica legata al controllo delle nascite. Lo si evince dalle stesse testimonianze presenti nel rapporto di Change, che lamenta l’impatto della Plgha sulle politiche locali, per i minori afflussi di denaro derivanti dalle restrizioni all’aborto. Il sistema è talmente ramificato da abbracciare anche i programmi sulla diffusione dell’HIV, l’acqua pulita e i “nuovi diritti” delle associazioni Lgbt. Un’affiliata dell’International Planned Parenthood, multinazionale al centro dello scandalo sulla compravendita di organi e tessuti di bambini abortiti, riferisce di aver dovuto chiudere in Mozambico 20 cliniche che offrivano servizi alla comunità Lgbt.

La conferma dello strettissimo legame tra gruppi gay e abortisti, che condividono lo stesso rifiuto dell’ordine naturale e l’idea che a ogni desiderio individuale debba equivalere un diritto (così ragionando, sarà chiaramente sempre il diritto del più forte), viene proprio dalle parole di un intervistato, riportate nel documento di Change: “In molti Paesi, è la comunità sulla salute riproduttiva a essere spesso una delle più grandi alleate delle tematiche Lgbt”. Il termine “salute riproduttiva” è un eufemismo coniato dalla neolingua, che sottintende il diritto a sopprimere i bambini nel grembo materno. Insomma, non ci resta che dire che di politiche come la Mexico City Policy ce ne vorrebbero altre.