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La grandezza di Romero, un vescovo santo che nulla c’entrava con la teologia della liberazione
NEWS 22 Gennaio 2015    

La grandezza di Romero, un vescovo santo che nulla c’entrava con la teologia della liberazione

Nei giorni scorsi Avvenire ha dato la notizia che i membri della Congregazione delle cause dei santi hanno espresso il loro voto unanimemente positivo sul martirio formale e materiale subìto dall’arcivescovo di San Salvador, Oscar Arnulfo Romero, il 24 marzo 1980, quindi assassinato in odium fidei. Ora si attende il giudizio del Congresso dei vescovi e dei cardinali e infine l’approvazione del Papa, che ha citato l’arcivescovo di San Salvador nella prima udienza generale dell’anno e anche nel viaggio di ritorno dalle Filippine, dando per scontata l’imminente beatificazione.

La beatificazione sarà anche un’occasione preziosa per conoscere meglio un grande pastore, un vero uomo di Dio, la cui figura è stata speso strumentalizzata e incasellata in uno schema, quello politico o della teologia della liberazione, che non gli apparteneva. «Romero è nostro» disse Giovanni Paolo II visitando la sua tomba nel 1983. «Nostro», della Chiesa intera.

Quello di Romero fu infatti prima di tutto un sacerdozio vissuto nell’adesione piena alla tradizione cattolica, segnato da una profonda pietà e da una cristallina vita spirituale. Di seguito riportiamo gli estratti di due articoli che possono aiutare ad avvicinarsi a questo suo lato spesso misconosciuto.

da «Morozzo Della Rocca: Romero, voce per l’oggi» di Andrea Galli, Avvenire 23 marzo 2014
[…] «Romero era fondamentalmente un uomo  semplice, un uomo del popolo – spiega lo storico Roberto Morozzo della Rocca – era di umili origini, non  aveva amici altolocati e amava stare con la gente, con i contadini. Viveva  in tre stanze nella portineria di un ospedale per malati terminali. Non  cercava fama e non aveva la retorica del profeta. Era un uomo di Chiesa  tradizionale, molto fedele al Magistero e a Roma». Con questo profilo,  divenuto arcivescovo di San Salvador, «si ritrovò nell'epicentro della  guerra fredda in America centrale, con una dittatura militare contrapposta  ai guerriglieri, con violenza e sangue. Reagì per senso di responsabilità, per il senso alto della sua carica ecclesiale». Il punto di svolta, pochi  giorni dopo la sua entrata in arcidiocesi, fu com'è noto l'uccisione del  suo caro amico Rutilio Grande, gesuita. «Non fu una vera e propria conversione  come spesso è stata descritta – continua lo storico –, Romero diceva che  i cristiani si convertono ogni giorno. Fu un'altra cosa: quando vegliò la notte sul corpo dell'amico ucciso, avvertì la necessità di fare l'arcivescovo con fortaleza, disse, con fortezza. Si impose allora di essere forte di fronte a un governo che non rispettava i diritti umani, che tollerava squadroni  della morte, al quale aveva chiesto indagini sulla morte di Rutilio Grande sentendosi poi preso in giro. Così come denunciò la violenza della guerriglia».

Emerse quindi un Romero che molti non conoscevano, quello che aveva come  papa prediletto Pio XI, che aveva visto a Roma negli anni '30 e aveva ammirato per la sua fortaleza nell'affrontare i totalitarismi. Continua Morozzo: «In una lettera del '77 citava papa Ratti che diceva: "Quando la politica  tocca l'altare la Chiesa difende il suo altare". Nel '78 scriveva al cardinale Baggio per spiegargli il senso della sua condotta in urto con il governo,  dicendogli che aveva sentito il dovere di comportarsi come "il santo vescovo  di Milano, Ambrogio, quando aveva impedito l'entrata in chiesa dell'imperatore  Teodosio, esigendo preventivamente penitenza pubblica per la sua colpa  nell'ingiustificata strage di cittadini". Questi erano gli esempi che lo  muovevano. E la sua ispirazione era eminentemente spirituale. La frase famosa che gli viene attribuita: "Se mi uccidono risusciterò nel popolo  salvadoregno" è una frase apocrifa, che è stata usata per dare un significato  messianico-politico alla sua morte. Che non era quello che lui voleva darle. In una pagina dei suoi Esercizi spirituali datata un mese prima del suo  assassinio, Romero, che aveva capito che sarebbe stato ucciso, scriveva  di aver rifatto la consacrazione al cuore di Gesù, devozione a lui molto  cara, e annotava: "Accetto con fede in Lui la mia morte per difficile che  sia. Non voglio darle una intenzione come pur vorrei per la pace del mio Paese e per la fioritura della nostra Chiesa. Perché il cuore di Cristo  saprà darle la destinazione che lui vorrà. Mi basta per essere felice e  fiducioso sapere con sicurezza che in Lui, nel Signore, sta la mia vita  e la mia morte"». È alla luce di tutto ciò che si può capire meglio quel «Romero è nostro» pronunciato da Giovanni Paolo II visitando la tomba dell'arcivescovo, nel 1983, per sottrarlo alle strumentalizzazioni e restituirlo alla sua  vera dimensione, di testimone della fede e di un'epoca.

da «La memoria di un martire» di Gianni Valente, 30Giorni, n.3 2002
[…] Basta scorrere scritti e omelie di Romero, per cogliere l’impostazione tradizionale della sua formazione spirituale e la sua naturale estraneità ai nuovismi teologici. «Se c’è un titolo che mi inorgoglisce è questo: il catechista. Io voglio essere solo questo: il catechista della mia diocesi», dice in un’omelia domenicale del settembre ’79. Nel duemila, al ventennale dell’assassinio, il professor Armando Márquez Ochoa ha potuto addirittura raccogliere un Catecismo de monseñor Romero in domande e risposte, tutto ricavato dalle omelie e dagli scritti di monseñor, suddivise secondo criteri tradizionali (fede-liturgia-sacramenti-vita in Cristo-preghiera) e dove emergono le “fonti” della sua predicazione: la Bibbia, i Padri della Chiesa, il magistero della Chiesa, soprattutto i documenti del Concilio Vaticano II, quelli di Paolo VI e quelli delle conferenze dei vescovi latinoamericani di Medellín e Puebla.

Anche il saggio letto al convegno di Terni da padre Delgado offre contributi inediti per cogliere l’ordito cristiano della personalità di Romero. Si tratta dell’analisi di uno schedario di note, appunti e fotocopie (8400 schede) raccolti da Romero fin da quando, giovane seminarista, era ospite a Roma al Collegio Pio Latinoamericano e studiava all’Università Gregoriana. Delgado ha anche inventariato i 205 volumi che costituivano la piccola biblioteca personale di Romero, ancora conservati nelle stanze dell’hospedalito, l’ospedale delle Suore della Divina Provvidenza che fu la sua ultima residenza.

Sia le schede che i volumi analizzati forniscono l’identikit degli interessi e della formazione spirituale di Romero. Tra le schede si trovano gli appunti del tempo della Gregoriana, schemi per le omelie e le classi di catechismo, raccolte di frasi dei Padri della Chiesa, riassunti di testi dai quali Delgado conclude che «il 60 per cento della letteratura consultata dal giovane Romero riguardava la vita mistica e la santità». Tra gli autori cari alla sua gioventù si notano il predicatore san Crisostomo, il difensore della fede dei semplici sant’Ireneo, e poi Roberto Bellarmino, Columba Marmion, Jules Lebreton. Uno spazio consistente (duecento schede) è riservato a testi di devozione al Sacro Cuore di Gesù. Le schede dedicate ai temi sociali riprendono gli scritti di sant’Ambrogio contro l’oppressione dei poveri, e quelli del profeta Neemia sull’usura e lo sfruttamento.

Se si suddividono per temi i 205 volumi conservati all’hospedalito, il settore più consistente della libreria di Romero risulta essere quello delle opere di spiritualità (25 volumi) e quello delle opere sulla dottrina della Chiesa e sul magistero dei papi (16 volumi). L’autore ecclesiastico contemporaneo più gettonato è l’argentino Eduardo Pironio, creato cardinale da Paolo VI nel ’76, amico e consolatore di Romero nelle sue ultime visite romane, piene di incomprensioni. Secondo Delgado, «Romero incontrava nel pensiero di questo autore una formulazione della teologia della liberazione molto aderente al Vangelo e alla dottrina sociale della Chiesa». Gli altri testi liberazionisti presenti nella biblioteca di Romero (12 volumi) costituivano secondo l’analisi di Delgado la sezione meno consultata dall’arcivescovo. «I libri dedicati a questa teologia sono intatti come il giorno in cui monseñor li comprò o, per meglio dire, glieli regalarono… Visto lo stato di pulizia in cui si presentano, ne deduciamo che coloro che glieli regalarono avevano più interesse a che Romero li leggesse, di quanto interesse prestò ad essi Romero stesso».

Il profilo che Delgado trae dai suoi studi sulla formazione di Romero è perentorio: «Come studente di teologia a Roma, Romero ignorò totalmente le correnti dialettiche, esistenziali ed ermeneutiche della teologia protestante che dall’inizio del secolo forgiavano una nuova cultura teologica, i cui venti soffiavano per le università d’Europa, suscitando uragani di crisi di fede tra gli studenti». Romero, «che aveva poca curiosità per la teologia come scienza», non si appassiona neanche alle controversie sulla Nouvelle Theologie che proprio negli anni Cinquanta scuotevano le accademie teologiche. «Nomi di teologi come il domenicano belga Chenu o il gesuita francese De Lubac non appaiono nello schedario di letture e consultazioni di Romero. Invece, sono preferiti nomi come san Giovanni della Croce, santa Teresa d’Avila, don Columba Marmion, e il padre De la Puente». […]