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3.12.2024

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La gran batosta delle periferie alla Ztl
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26 Settembre 2022

La gran batosta delle periferie alla Ztl

Dopo la sconfitta di Donald Trump ad opera di Joe Biden, e la mancata affermazione di Marine Le Pen – che pure, attenzione, ha registrato una crescita costante nel corso degli anni – nella vicina Francia, la diagnosi politologica prevalente era una: la morte del sovranismo. Una interpretazione frutto, in realtà, forse più di un auspicio che di una constatazione, come mostrano il consenso che Viktor Orbán continua ad avere in Ungheria, l’ascesa della destra in Svezia e, da ultimo, il trionfo elettorale di Giorgia Meloni alle elezioni politiche in Italia.

In particolare quest’ultimo dato – con Fratelli d’Italia che, in proporzione, ha incassato una vittoria ben più grande di quella, pur netta, della coalizione di cui fa parte – non solo conferma che il «sovranismo è vivo e lotta insieme a noi», ma ne descrive un’affermazione in opposizione al modello culturale progressista. Non sta infatti sfuggendo a nessuno come la vittoria della destra meloniana sia avvenuta in contemporanea delle esclusioni eccellenti dal nostro Parlamento: quelle di figure come Monica Cirinnà e, ancor più, come Emma Bonino (+ Europa non è arrivata neppure al 3%), simboli delle battaglie sui cosiddetti diritti civili.

Una coincidenza che, probabilmente, coincidenza non è, e che traccia quello che in fondo è il vero bilancio sostanziale di questa tornata: la vittoria delle periferie sulle zone Ztl, dell’Italia di provincia su quella elitaria dei Parioli, dei temi concreti e urgenti su quelli astratti, delle priorità della gente comune sulle rivendicazioni delle minoranze. E questo, attenzione, vale anche a prescindere dallo studio dei flussi elettorali, nel senso che risuona già nella parlata – inequivocabilmente romana – di Giorgia Meloni (che pure ha dato prova di padroneggiare più lingue) rispetto a quella più professorale di Enrico Letta.

Basterà tutto questo a far fare al centrosinistra della sana autocritica? Pare difficile, alla luce del fatto che sono anni, ormai, che non solo il fronte progressista porta avanti un’agenda sganciata dalle urgenze maggioritarie – promuovendo ius soli, biotestamento e nozze gay – ma che bolla come sovranista ed estremista, anzi «fascista», tutto ciò che appare disallineato ad essa. In questo senso, la demonizzazione dell’avversario continua ad essere una strategia costante (lo fu già con De Gasperi, lo è stato con Berlusconi e Salvini, lo con Meloni) dell’area liberal, di fatto nipote di quella comunista.

Peccato che tale strategia non paghi affatto. Eppure, fino agli ultimi giorni di campagna elettorale, Enrico Letta – che resta il leader della seconda coalizione più votata, anche se sconfitta di molto da quella vincente – aveva continuato su tale strada, spiegando che il rischio, per il nostro Paese, era quello di diventare «una provincia dell’Ungheria». Ora, non sappiamo se questo possa accadere – e comunque non c’è da augurarselo, nel senso che l’Italia ha anzitutto i suoi interessi e la sua autonomia da preservare -, ma una cosa è certa: è destinato a non governare l’Italia chi se la immagina tutta come se fosse una villetta di Capalbio.

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