Per gentile concessione del Centro studi Livatino, pubblichiamo l’articolo di Francesco Mario Agnoli, già presidente di sezione alla Corte di appello di Bologna e componente del Consiglio superiore della Magistratura (1986-1990), che conferma la fondatezza delle ragioni alla base della decisione della Corte polacca, anche alla stregua di quanto stabilito da altre Corti cost., da quella tedesca a quella italiana.
Anche in Italia le reazioni alla sentenza della Corte Costituzionale polacca dell’appena trascorso 8 ottobre si sono concentrate, più che sul versante propriamente giuridico-costituzionale, su quello politico, giungendo a prospettare come tutt’altro che remota la possibilità di una “pol-exit”. Come noto, tutto prende origine dal contrasto fra la Repubblica Polacca e l’Unione Europea, che ritiene non conforme ai principi del diritto comunitario le modifiche apportate da quel Paese al proprio sistema giudiziario. La questione ha avuto un primo tempo davanti alla Corte di Giustizia dell’UE, che ha ordinato la sospensione della riforma: decisioni contestate per sospetta “incompetenza” dal governo polacco, che si è rivolto alla propria Corte costituzionale. I giudici di Varsavia, dopo avere argomentato in via generale sui rapporti fra il diritto interno dei singoli Stati membri e il diritto comunitario, pur riconoscendo la prevalenza di quest’ultimo in altri campi, l’hanno esclusa in punto a organizzazione del sistema giudiziario.
In Europa e in Italia le prime reazioni sono state di ostentato stupore. Ursula von der Leyen ha affermato che “il diritto europeo mantiene il primato su quello nazionale” e si è impegnata ad utilizzare “tutti gli strumenti necessari per garantirlo”. Tutto sommato, poco più di un commento di rito. Media e politici italici si sono spinti più in là, fino ad assicurare che si tratta di un unicum, senza “precedenti nella storia europea” e a prospettare l’intento della Polonia di lasciare l’Unione. A chi contrapponeva i precedenti del Tribunale di Karlsruhe (come dire la Corte costituzionale tedesca) è stato replicato che sarebbe come “mescolare le mele con le pere”. Meritevole di particolare attenzione, per il pur sommario tentativo di indicare le ragioni della sostenuta differenza, l’intervento del segretario del PD, Enrico Letta, che ritiene la sentenza polacca “di principio, generale e dalle conseguenze gravi a differenza di quella tedesca, che è rimasta, difatti, senza seguiti”.
In realtà, inquadrata nei suoi reali termini di puntualizzazione del rapporto fra il diritto comunitario e il diritto nazionale dei Paesi membri, la decisione della Corte di Varsavia si qualifica quale legittima discendente di quella tedesca del 5 maggio 2020, riguardante il Public Sector Purchase Programme (PSPP), cioè la delibera di acquisto da parte dell’Ue di titoli emessi dai governi degli Stati membri (nella sostanza: finanziamenti a favore degli Stati membri colpiti da grave crisi economica, fra i quali in prima linea l’Italia). Delibera ritenuta legittima dalla Corte di Giustizia dell’Unione e messa invece in dubbio dai giudici di Karlsruhe, che ritengono indispensabile per la partecipazione della Germania l’approvazione del Parlamento tedesco.
Per giungere a questo risultato la Corte tedesca ha portato al livello più alto tendenze e argomenti di sue precedenti decisioni, che già oltrepassavano l’orientamento delle Corti costituzionali di altri Paesi membri che, pur riconoscendo la superiorità del diritto comunitario su quello nazionale, la escludono, ma soltanto in questo caso, quando si tratta di proteggere gli inalienabili diritti fondamentali previsti dalle singole Costituzioni. Fra queste la nostra Consulta, in particolare – ma non solo – con la decisione n. 115 del 31 maggio 2018 – cosiddetta “sentenza Taricco”, riguardante un procedimento penale per frodi finanziarie –, nella quale viene definita emessa “ultra vires”, quindi viziata da incompetenza, la precedente decisione in merito della la Corte di Giustizia.
I giudici di Karlsruhe sono andati oltre, fino a limitare solo ad ipotesi specificamente individuate e, in definitiva, eccezionali, il trasferimento all’Unione di competenze caratterizzanti il potere sovrano del Parlamento tedesco. Difatti – affermano – un trasferimento di carattere generale o, comunque, di più ampio contenuto, sarebbe incompatibile con il principio democratico e il diritto di voto del cittadino tedesco. Un principio che più generale non si può e che, proprio per questo, suscitò un immediato, vivissimo allarme fra i costituzionalisti, pressoché unanimi nel ritenerla “causa di una grave crisi istituzionale nell’ambito del processo d’integrazione europeo” e, addirittura, possibile preludio non della Deutschland-exit (la Germania non può uscire dalla UE, perché la UE è la Germania), ma della fine dell’Unione. Oppure di un’Unione nella quale – come è stato autorevolmente scritto – “è il diritto della UE che viene misurato rispetto alla sua conformità con un “diritto europeo tedesco”.
Quanto poi alla mancanza di “seguiti”, la sentenza è ancora lì (vogliamo dire mina vagante nei flutti del diritto comunitario?), coi suoi principi, pronti – se occorre – a nuove applicazioni. E ancora lì sono le sue conseguenze. Prima fra tutte la possibilità per i cittadini tedeschi di impugnare davanti al Tribunale di Karlsruhe tutti gli atti comunitari che ritengano lesivi di propri diritti costituzionali (in Germania, in caso di supposta lesione di questi diritti da parte di organi pubblici, ci si può rivolgere direttamente alla Corte costituzionale, a differenza di quanto avviene in Italia, dove occorre passare per il tramite del giudice ordinario).
Nella sostanza, anche la Corte Costituzionale polacca, senza negare, in linea di principio, la prevalenza del diritto comunitario su quello nazionale, vi ha apposto il paletto (il “contro-limite” del linguaggio giuridico) del principio (tedesco) “dell’attribuzione”, che comporta il passaggio di sovranità alla UE solo per situazioni specifiche. Di conseguenza, in mancanza di espressa delega: “il tentativo di interferire nell’ordinamento giudiziario polacco da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea viola i principi dello Stato di diritto: il principio di supremazia della Costituzione e il principio di conservazione della sovranità nel processo di integrazione europea”.
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