Dopo 9 anni di attività il tribunale speciale per i crimini commessi dai Khmer rossi in Cambogia ha emesso due importanti e definitive condanne al carcere a vita. La prima a carico di Nuon Chea, 90 anni, soprannominato “fratello numero due”, perché secondo solo al numero uno Pol Pot, e la seconda a carico di Khieu Samphan, 85 anni, considerato l’ideologo del regime e capo di Stato dell’allora Kamphuchea democratica. Non due personaggi qualunque quindi, ma la testa, il braccio pensante ed esecutivo del regime responsabile della morte di un milione e settecentomila persone.
Se da una parte il verdetto sembra portare finalmente al popolo cambogiano e ai famigliari delle vittime una speranza di giustizia, dall’altra le vittime e i loro familiari sopravvissuti non potranno mai essere adeguatamente risarciti. Non entro nel merito dell’attività di tale tribunale speciale – in essere dal 2007 e voluto dalle Nazioni Unite dopo un difficile compromesso con il governo cambogiano – né mi soffermo sui suoi vizi procedurali, sulle accuse di corruzione, sull’enorme e incontrollato dispendio di denaro che ha trasformato l’assise in un business per molti. Ciò significherebbe concludere che la giustizia umana è sempre fatalmente parziale e ingiusta nel restituire il mal torto.
Già Chhang Youk, direttore del DC-C, (Documentation Center of Cambodia, che ha il compito di raccogliere e archiviare tutto il materiale disponibile sui Khmer Rossi, e che in questi anni di ricerca ha censito 19440 fosse comuni sparse sul territorio nazionale e 185 centri di detenzione e tortura) aveva detto che i responsabili di tali eccidi dovrebbero essere condannati a due milioni di anni di prigione, tante sono le vittime del genocidio che si è consumato, ma questo non sarebbe possibile. Nondimeno, il verdetto definitivo all’ergastolo, anche se “vanificato” dall’età degli imputati, potrebbe almeno contribuire a lenire il dolore, il non senso della storia, in un Paese dove ancora prevale l’impunità, e la giustizia ha sempre un prezzo o un colore politico. Mi chiedo dunque, dopo questo verdetto definitivo, se giustizia è stata fatta e se accanto al verdetto vi siano altre risorse umane, religiose e culturali in grado di aiutare a superare i traumi e gli spettri del passato.
Nella motivazione che ha accompagnato il verdetto, peraltro risalente all’agosto del 2014, si dichiara che i due imputati sono colpevoli di “crimini contro l’umanità, sterminio, omicidio, persecuzione politica e altri atti inumani […] commessi nel territorio della Cambogia dal 17 aprile 1975 al dicembre 1977”. A questo verdetto di primo grado è seguito l’appello degli avvocati difensori a cui il tribunale ha risposto con sentenza definitiva, senza più possibilità di appello, a 40 anni dai fatti commessi. Alcuni anni fa Chhim Sotheara, psicologo e direttore della Mental Health Transcultural Psychosocial Organisation, chiamato a testimoniare sugli effetti devastanti dei traumi subiti da milioni di cambogiani durante quel periodo della loro storia, parlava di “symbolic justice” come esito minimale della lunga e tuttora in corso assise processuale.
Di fatto, per molti cambogiani il trauma non è ancora superato e si manifesta in ricordi dolorosi, sogni nei quali i propri familiari morti piangono, chiedono aiuto, e poi paura, tanta paura. Non è vero che il tempo guarisce. Matthias Witzel, autore per conto del Center for Social Development, di “Understanding Trauma in Cambodia Handbook”, ha richiamato l’attenzione sul fatto che ancora molti cambogiani soffrono di “post-traumatic stress disorder”, per via delle violenze subite o a cui hanno assistito, e ha indicato in tre aree il confluire dei meccanismi di difesa messi in atto dalla psiche umana per alleviare il dolore seguito al trauma: “Dissociation, avoidance, numbing” (dissociazione, elusione, indifferenza).
Molti cambogiani vivono in un permanente stato di dissociazione e di rimozione. Evitano tutto ciò che può richiamare la paura e il dolore dell’anima, un tempo patiti. Evitano le situazioni complesse nelle quali sarebbe difficile gestire le relazioni e spesso, se non vi sono vie d’uscita, reagiscono con violenza. Molta violenza domestica, infatti, è riconducibile a simili traumi non superati, alla paura che incombe, al senso di vulnerabilità e di minaccia, che ancora alberga nel cuore di molti. La semplice instabilità politica, l’essere continuamente vittime di episodi di corruzione, o l’essere in balia di chiunque, un poliziotto che ti ferma per strada o un medico che ti cura solo dietro compenso, senza poter chiedere spiegazioni o replicare per via di un permanente senso di inferiorità, genera ulteriore paura e senso di minaccia, acuito dalla diffusa impunità e mancanza di giustizia. Ne risulta un bisogno di distacco emotivo, di apatia generalizzata, di censura rispetto a ciò che riporta in superfice le ferite profonde dell’anima. Tutto ciò inibisce il processo di riconciliazione con se stessi e con gli altri a più livelli, e si preferisce l’espediente e la fortuna, o il denaro, unico strumento in grado di affrancare da qualsiasi tipo di minaccia. Mi chiedo se accanto a questo ultimo verdetto e ai successivi, o al counseling terapeutico che per i più rimane proibitivo, vi siano altre risorse disponibili a tutti, come la religione per esempio, quella buddista.
In questo senso accolgo con fiducia un testo pubblicato alcuni giorni fa a cura del DC–C, perché documenta almeno una riflessione in corso. Si tratta di “Cambodia’s Hidden Scars” che, alla sua seconda edizione, propone un’interessante intervista a Sao Chanthol, monaco del monastero Wat Lanka di Phnom Penh. Nel dialogo il monaco esplora i temi della riconciliazione nella prospettiva dell’immutabile legge karmica di “causa ed effetto”, secondo la quale vi è sempre un’influenza delle proprie vite passate, delle azioni commesse, sulla vita presente. Il Dhammapada infatti recita che “come il ferro è corroso dalla propria ruggine, corroso dal suo stesso agire è colui che compie il male” (240), a dire che il destino dell’uomo è determinato e “corroso” dal suo stesso agire. “Non posso ammettere che la sofferenza patita dalle vittime durante il regime dei Khmer rossi sia l’esito del loro karma – sostiene Sao Chanthol – nondimeno devo continuare ad ammettere che tutto accade come processo di ‘causa ed effetto’”. La psichiatra Yim Sotheary, buddista, sostiene che pur credendo nell’influsso positivo della religione, non direbbe mai ad un suo paziente che quanto di male gli è accaduto sarebbe l’esito di tale legge karmica.
Una seconda e altrettanto radicata credenza che non contribuisce al processo di riconciliazione interiore, è quella secondo la quale l’anima di chi ha subito una morte violenta non troverà mai pace. Di qui i ripetuti incubi e il ritorno, durante i sogni, dei congiunti morti. Una ulteriore difficoltà è legata al fatto che nel buddismo ciascuno è rifugio a se stesso: “Siamo noi la nostra protezione, proprio noi siamo il nostro rifugio: come potrebbe essere altrimenti?” (Dhammapada, 380). Se al dolore muto si aggiunge la radicale solitudine dell’essere, anche questo non aiuta. Proprio come il verdetto che, per quanto definitivo, rimane esterno e non basta a consolare le ferite, a rispondere al dolore. Mi chiedo se in questo contesto si possano e si debbano suggerire altre prospettive religiose, altre interpretazioni del male e del dolore di esistere. Mi chiedo se non si debba osare di più e proclamare con più forza che “al centro non c’è la legge e la giustizia legale, ma l’amore di Dio che sa leggere nel cuore di ogni persona …”, come scrive papa Francesco in Misericordia et misera. Sì, mi chiedo se si debba osare di più.
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