Coltivare cannabis in casa, in minime quantità, non è reato, secondo un pronunciamento delle Sezioni Unite della Cassazione datato 19 dicembre.
Il Timone ne ha parlato con Federico Samaden (foto a lato), ex tossico, che ha speso gli anni più importanti della sua giovinezza a San Patrignano, dapprima come ragazzo in cura e poi come referente della casa aperta in Trentino. Ad oggi Samaden è dedito ai giovani, innanzitutto in qualità di dirigente scolastico dell’istituto alberghiero di Levico e Rovereto, e poi come incaricato dalla Giunta provinciale di Trento per studiare delle iniziative di carattere formativo per, tra le altre cose, prevenire il consumo di stupefacenti tra i ragazzi. La sua testimonianza di vita è raccolta nel libro: Fotogrammi stupefacenti – Storia di una rivincita (Dominus Production, 2018).
Samaden, come commenta la decisione della Cassazione?
«La cosa che mi sconvolge di più e che mi preoccupa molto è che un organo così importante, come è la Cassazione, con questo pronunciamento non tenga conto dei diritti dei minori, che oggi sono già calpestati a diversi livelli. Autorizzando le persone a coltivare la cannabis in casa, ossia dove vivono le famiglie e quindi anche i minorenni, di fatto si hanno due conseguenze: innanzitutto i bambini crescono vedendo la cannabis alla stregua di una pianta di salvia o di basilico; in secondo luogo, vedranno che il papà, la mamma o qualche fratello maggiore ne fanno uso per alterare la propria lucidità. Tutto questo verrà assorbito dai bambini. La Cassazione aveva fatto sentenze opposte su questo, ora invece ha cambiato rotta: è una contraddizione e un grandissimo errore pedagogico-educativo».
Di fatto, in questo modo, si spiana la strada all’uso della droga cosiddetta “leggera”: ma veramente farsi una canna non fa nulla?
«Il punto fondamentale è proprio questo: ormai tutte le evidenze scientifiche ci dicono che un cervello in formazione, com’è quello degli adolescenti, subisce danni gravi dall’uso della cannabis. Solo che c’è una fetta di mondo adulto che parte da un punto di vista diverso da quello educativo e che ha come unico fine quello di costruire una società dove il principio di responsabilità è indebolito perché non hanno voglia di assumersene il carico. Si tratta di una pericolosa sottocultura che porta avanti l’idea che “ognuno possa fare quello che vuole”.
Oltre al danno ai cervelli, inoltre, con l’uso della cannabis c’è un danno al tessuto sociale: abbiamo sacche di ragazzi che potrebbero essere attivi, che potrebbero essere cellule emergenti della società che, facendo uso di droga, decidono di non crescere mai, di non investire sulla propria vita dandole un senso e facendosi guidare da valori positivi».
Dal fumarsi una canna all’uso di sostanze più pesanti, il passo è breve. La tua stessa storia di vita lo testimonia, e non sei stato tu ad essere sfortunato…
«Il passo è sicuramente breve. Poi è vero che non è una strada certa per tutti, però quando nella propria testa si inserisce l’equazione “Mi faccio, sto meglio” diventano poi molto flebili le linee di difesa per usare altre sostanze.
Al giorno d’oggi ci sono molte sostanze e ognuna ha la sua particolarità e pericolosità: non si parla di “leggerezza” e “pesantezza”, bensì di caratteristiche diverse… ma sono tutte droghe che, in un modo o nell’altro, portano ad alterarsi e a vivere una “non vita”».
Insomma, viviamo in un Paese che pare non pensare al futuro, che si sta annientando dal proprio interno. Cosa fare, come reagire di fronte a derive come quest’ultima della Cassazione?
«Ognuno deve fare la propria parte mettendo più vita possibile nel proprio zaino: una vita di senso, piena di umanità per noi e per le persone che ci circondano, per il nostro piccolo microcosmo. Questo è oggi necessario ed è una strada possibile per tutti: la gente va svegliata dall’anestesia e bisogna rimettere responsabilità in capo a ciascuno».
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