Ha provocato grande commozione e sconcerto, nel mondo intero, la notizia della prematura scomparsa della star dell’Nba Kobe Bryant, morto domenica insieme alla figlia Gianna Maria ed altre persone in un incidente in elicottero nel sud della California, a Calabasas. Bryant aveva 41 anni, la figlia – pure d’arte, dato che era una promessa del basket femminile – appena 13. I media in queste ore stanno quindi rievocando le gesta di questo straordinario atleta, vincitore di 5 titoli Nba e non a torto accostato all’inarrivabile Michael Jordan, il quale lo riconosceva apertamente: «Come giocatore, lui si merita di essere paragonato a me».
Accanto a questo lato sportivo, ce n’è però un altro che merita di essere ricordato, ossia quello privato e di fede. Sì, perché Kobe Bryant – che da bambino, a seguito del padre anch’egli cestista, visse alcuni anni in Italia – era cattolico. E cattolico non per modo di dire: cresciuto in una famiglia credente, nel 2001 si era sposato in una parrocchia della California meridionale. La fede gli fu inoltre di decisivo aiuto in una delle vicende più burrascose della sua esistenza: quella di un processo per violenza sessuale ai danni di una dipendente di un hotel del Colorado. Alla fine chi accusava Bryant ritirò le sue accuse, ma quella fu per il campione una fase difficilissima, se non altro perché sua moglie Vanessa, a causa dello stress, abortì.
Ebbene, in quel periodo tormentato – anche dal serio rischio di finire in cella – Bryant fu sostenuto soprattutto dalla fede: «L’unica cosa che mi ha davvero aiutato durante quel processo – sono cattolico, sono cresciuto cattolico, i miei figli sono cattolici – era parlare con un prete». L’esser cristiano ha aiutato il grande giocatore scomparso anche durante la crisi del suo matrimonio, avvenuta nel 2011 quando la moglie chiese il divorzio citando, a supporto di tale richiesta, differenze incolmabili tra i due, motivazione peraltro ricorrente quando le nozze vanno a rotoli.
Ciò nonostante, Kobe Bryant non si è arresto all’idea di veder naufragare il suo matrimonio, celebrato davanti a Dio; e alla fine, due anni dopo, sua moglie Vanessa è tornata sui suoi passi, ritirando la richiesta di divorzio. Che il fuoriclasse morto domenica fosse un autentico credente è provato anche alla sua frequenza alla Santa Messa. Ne rende testimonianza il racconto, condiviso su Instagram, della cantante Cristina Ballestero, la quale incontrò Bryant alla Holy Family Cathedral di Orange, in California: «Mentre salivamo alla comunione, con grande signorilità ha aspettato che io lo precedessi».
Non per nulla su Twitter anche Jose Gomez, arcivescovo di Los Angeles, ha voluto esprimere un pensiero in memoria del grande campione: «Sono molto triste per la notizia della tragica morte di Kobe Bryant giuntami questa mattina. Prego per lui e per la sua famiglia. Possa riposare in pace e possa la Madonna portare conforto ai suoi cari». Con toni egualmente commossi si è espresso uno dei vescovi ausiliari di Los Angeles, Robert Barron: «Preghiamo per il riposo della sua anima, insieme agli altri uccisi nell’incidente dell’elicottero. Possa il Signore concedere loro la sua misericordia e accoglierli nel suo regno celeste».
Molto probabilmente i grandi media sorvoleranno su tutti questi aspetti, ricordando di Kobe Bryant solo le pur immortali imprese sportive. Tuttavia, adesso che purtroppo non c’è più, ciò che davvero conta – e che, ovunque si trovi, lo può aiutare – è anzitutto la sua fede; il solo lasciapassare che, c’è da sperare, lo aiuterà a riposare in pace e ad insegnare la pallacanestro agli angeli.
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