Non ha mai fatto mistero della sua fede cattolica, il regista Pupi Avati, anzi, ne va fiero. Su Tempi ha anche dichiarato che senza la fede trasmessa da sua madre, oggi, non sarebbe quello che è. Il riferimento a Dio è molto presente anche nel suo ultimo film La Quattordicesima del tempo ordinario dove uno dei protagonisti entra in chiesa per pregare, scena che lamenta il regista, oggi è difficile vedere nelle nostre pellicole. Anzi, nell’intervista al Timone – rivista sulla quale lo scorso dicembre (qui per abbonarsi) già aveva raccontato il suo ricordo natalizio più bello – denuncia l’omologante laicizzazione del cinema italiano contemporaneo.
Nei suoi film non si vergogna a far vedere gente che prega. Pensa che oggi il cinema tenda a censurare la fede? «La cultura laica ha prevalso in un modo totale, ma la cosa bella è che, se io ho avuto delle obiezioni su un mio film, le ho avute dal mondo cattolico. Non ho mai fatto mistero della mia appartenenza alla fede cattolica e non mi importa di essere emarginato, ne sono orgoglioso, è il mio punto di forza che mi dà una grande identità, non ci si può omologare per vigliaccheria o comodità, bisogna essere sé stessi, coerenti con sé stessi. Lo sono stato per sessant’anni, da quando ho iniziato a fare il cinema, non cambierò certo adesso. Anzi, ora mi trovo nella condizione di dire quello che penso, senza impacci o problemi, perché mi sembra estremamente grave non avere, non dico la solidarietà del mondo laico, ma la solidarietà di chi si professa cattolico o di chi viene finanziato dalla Chiesa e dalle organizzazioni cattoliche e che si ritrova a scrivere su determinate testate».
Il riferimento alla fede è presente in modo chiaro nel suo ultimo film La quattordicesima domenica del tempo ordinario…«Il mio ultimo film è pieno di valori perché, innanzitutto, ricandida il matrimonio come qualcosa che possa durare per sempre, poi c’è il problema dell’aborto che affronta la moglie del protagonista per non interrompere la sua carriera lavorativa. Ci sono questioni grosse in ballo. Ad un certo punto c’è la scena in cui il protagonista entra in chiesa a pregare per la guarigione della moglie e l’ultima parola è una parola di speranza. La cosa più incredibile è che io ricevo apprezzamenti da parte del mondo laico, da parte addirittura di persone che non credono».
Perché secondo Lei, il cinema tende a censurare la fede? «Per una certa miopia da parte di un mondo culturale che ha trovato la propria rassicurazione in una forma di ateismo, di mancanza di sacralità».
L’omologazione è rassicurante? «È molto rassicurante l’omologazione, perché le persone si sentono protette dal fatto di pensare e dire sempre le stesse cose, paradossalmente si sentono rassicurate dal fatto di perdere la propria identità. È evidente che andare controcorrente è difficile, però uno non può forzare la propria natura. Una volta c’era Olmi che era in qualche modo un compagno di viaggio, ora è sparito anche lui».
In che modo Lei esprime la sua appartenenza religiosa nei suoi film? «La mia Costituzione è il Discorso della montagna, le Beatitudini. Dovrebbe essere la Costituzione di ogni essere umano che vive in un contesto sociale, anche se è molto difficile da applicare, ad esempio è molto difficile considerare gli ultimi come primi, però è commovente pensare che duemila anni fa, un ragazzo di trent’anni fa, ha immaginato queste regole di vita che ci avrebbero preservato da qualunque tipo di belligeranza, di ingiustizie. Purtroppo non vengono ricordate sufficientemente, ma nei miei film, il tema centrale è sempre quello, è il tema degli ultimi. È quello di una persona che ha un grande sogno e non riesce a realizzarlo, però il personaggio viene guardato con grande amore, vicinanza e complicità. È il nostro prossimo. Io racconto sempre le persone vulnerabili. Racconto gli antieroi, persone che mi assomigliano un po’ di più, nelle quali mi riconosco. E sono i timidi e sono quelli che si sentono inadeguati, sono gli ultimi».
A proposito di fede…un suo pensiero per le terre alluvionate. «Io credo che la mia regione che è quella più colpita abbia già dimostrato negli anni ’50, col Polesine e così via, di avere una capacità nei riguardi di eventi atmosferici così devastanti, di reazione straordinaria. È una regione che sa reagire in modo efficiente ed efficace». (Foto Imagoeconomica)
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