di Leone Grotti
Vogliono cancellare ogni traccia del cristianesimo. Durante la Rivoluzione Culturale bruciavano le Bibbie, ma neanche allora rimuovevano le croci dalle chiese». È sconsolata la signora W., un’anziana cinese di Sanjiang che dopo avere assistito alla demolizione della grande chiesa della città da parte del partito comunista è riuscita a malapena a scampare l’arresto.
Frenare il cristianesimo
Il Guardian si è recato nella città della provincia di Zhejiang che si trova davanti a Wenzhou, la prefettura dove il 15 per cento della popolazione è cristiana e un tempo definita la “Gerusalemme d’Oriente”. Nella provincia di Zhejiang, gli ufficiali locali del partito hanno già fatto distruggere dal 4 aprile almeno 360 tra croci e chiese, in ottemperanza alla campagna delle «Tre rettifiche e una demolizione», lanciata dal governo per frenare la crescita del cristianesimo e abbattere le strutture cristiane «troppo vistose».
Revival maoista
Secondo un pastore protestante di Wenzhou che appartiene al movimento delle Tre autonomie, quello ufficiale che riunisce le congregazioni protestanti riconosciute da Pechino, «governo locale e chiese sono sempre andati d’accordo» ma ora «è partito un ordine dall’alto», e cioè da Xia Baolong, capo del partito comunista di Zhejiang ed ex governatore della provincia. Xia dal 2003 al 2007 è stato vice dell’attuale presidente della Cina Xi Jinping, che oltre a rispolverare vecchie tradizioni maoiste sta cercando di sostenere un ritorno al confucianesimo in Cina.
Più cristiani che comunisti
«Il numero dei cristiani è cresciuto così tanto in Cina che ormai ci sono più cristiani che membri del partito comunista», afferma un pastore protestante, che ha preferito farsi chiamare Joy. «Ecco perché ora il partito è spaventato, senza contare che questa terra è sempre stata un luogo di persecuzione per i cristiani». Secondo il pastore, per far rivivere il confucianesimo è necessario combattere il cristianesimo. Non a caso, ancora oggi i membri del partito comunista si riferiscono ai cristiani con il termine dispregiativo yang jiao, che significa «insegnamento straniero».