Da un’idea di don Samuele Pinna ha preso vita “Dietro le quinte”, una rubrica senza periodicità che vuole incontrare quei personaggi importanti che lavorano per il bene e non sempre appaiono in prima fila, ma appunto sono spesso “dietro le quinte”. Dopo la prima puntata – che ha visto protagonista il nuovo Vicario episcopale per la zona pastorale di Milano, monsignor Giuseppe Vegezzi -, la seconda – con la signora Maria Amata Vasaturo in Pedersoli -, la terza – con Wilma De Angelis – la quarta – con Paolo Gulisano, la quinta – con Alberto Guareschi, la sesta – con padre Giuseppe Busato, pubblichiamo oggi la settima.
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Varco la maestosa soglia che segna l’ingresso dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove ho un appuntamento con un suo docente a libro paga. Il giornalista di lungo corso Giorgio Torelli l’ha descritto in un suo pezzo come un teologo «piccolo, minuto, tagliente, quasi tascabile e medievista di grido».
Sì, perché il professor Davide Riserbato con cui m’incontro tiene nell’ateneo milanese ben tre corsi di Teologia, ma esercita il suo magistero anche a Lugano, insegnando Storia della filosofia medievale. Passeggiamo all’interno dei portici di quello che fu un monastero e chiedo all’affermato medievista quale senso abbia studiare e approfondire l’Età di Mezzo: «Il Medioevo», mi viene confidato, «è ciò che tiene insieme la mia duplice vocazione e professione di filosofo e di teologo, ed è ciò che mi consente di ancorare stabilmente la mia ricerca e la mia produzione scientifica alla Tradizione. Penso che occorra anzitutto ampliare l’orizzonte, e chiederci, più in generale, che senso possa avere lo studio del passato, della Storia».
La risposta si articola poi, e non poteva essere altrimenti, richiamando uno dei gioielli dell’architettura medievale: la Cattedrale di Notre Dame di Chartres: «Il portale di destra della facciata ovest», è spiegato con acribia dall’illustre accademico, «porta scolpito nella pietra ciò che Bernardo di Chartres aveva vergato sulla pagina, secondo quanto ci è dato sapere da Giovanni di Salisbury e dal suo Metalogicon: “Siamo come nani sulle spalle di giganti, sì che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non per l’acutezza della nostra vista, ma perché sostenuti e portati in alto dalla statura dei giganti”. È la consapevolezza saggia e umile dei medievali, la pygmea humilitas, come è stata definita da un altro medievale, Alano di Lilla, quella cioè di essere portati sulle spalle di qualcuno più grande di loro che li ha preceduti».
Ergo, si studia il passato per salire “sulle spalle dei giganti”? «Sì, e lo si fa non solo o non tanto per comprendere meglio il presente, che peraltro è un’epoca folle e confusa, e che come tale – temo – sarà affidata alla memoria dei posteri. Piuttosto, si studia il passato per guardare e progettare il futuro. Quanto al Medioevo, lo considero l’autentica Età dei lumi: con il bello, il vero e il bene, che ne costituiscono l’intima essenza, esso è in grado più di ogni altra epoca di illuminare il nostro futuro».
Mi sovviene una riflessione: la teologia di quei luminosi secoli è – potremmo dire – molto raffinata e in grado d’indagare con forza il mistero della realtà, oltre che quello della fede. Nondimeno, appare molto distante dall’attuale modo di procedere teologico. Domando se sia così: «Sì, lo è», è la risposta che conferma le mie elucubrazioni. «Qualcuno ritiene che io abbia compiuto una ritirata strategica dalla tenzone culturale che si starebbe combattendo, arroccandomi tra fortificazioniinespugnabili alla cui difesa si ergono i miei amici medievali, armati di acuti sillogismi. Può essere».
In realtà – mi sovrappongo -, per scacciare una tal idea basterebbe riferirsi al tentativo non isolato di mantenere vivo e operante il lascito del cardinal Giacomo Biffi: «D’altronde», l’insegnante davanti a me riprende con verve il discorso, «se mi sporgo dalle merlature dei bastioni e guardo oltre, non vedo affatto il fascino terribile di un esercito schierato pronto a dare battaglia, scorgo soltanto una landa desolata di lupi solitari. Allora, domando alla sentinella a che punto sia la notte. La notte è al suo culmine, ma la fitta oscurità annuncia l’approssimarsi di una nuova aurora. D’altra parte, è pur vero che la più tenue fiammella è in grado rischiarare le tenebre più fitte».
Interrompo di nuovo il ragionamento, perché mi vengono in mente alcune parole del già citato cronista coi barbiz da rezdór: «Nessun buio regge a lungo. Più è fitto e più volge verso l’alba». La citazione è apprezzata con un cordiale sorriso e l’esposizione – quasi fosse il respondeo dicendum di una Summa – procede verso le sue conclusioni: «Sono persuaso che il compito urgente sia quello di tener desta questa fiammella. In termini guareschiani, potremmo dire che dobbiamo “salvare il seme” nell’attesa che le acque si ritirino in vista di una nuova semina. In ogni caso, si deve comprendere quanto sia necessario fare ritorno alle sorgenti, riscoprire le nostre radici… è quello che cerco di fare, in filosofia come in teologia».
Nel nostro incedere tra i corridoi sono a tratti distratto da orde di giovinastri impegnati a chiacchierare in capannelli ben compatti, uno sbucar di persone, insomma, un accozzarsi, un andare a brigate, un far crocchi. Per un attimo, rivolgo a loro la mia attenzione: si dice siano il futuro. Nessuno lo nega, ma rimango perplesso se sarà radioso o meno. Voglio, quindi, sapere dallo stimato cattedratico cosa vuole lasciare a questi giovani che non sono né saranno mai (probabilmente) dei teologi di professione: «Qui, fin dalla fondazione dell’ateneo, e come prerogativa unica nel panorama delle università italiane, abbiamo dei corsi di teologia per gli studenti di tutte le facoltà. È una sfida. Come si può immaginare, molti studenti non vedono di buon occhio tale impostazione che leggono come un’imposizione e come un retaggio anacronistico. Poi, però, quanti si lasciano incuriosire dalla teologia, se ne appassionano, a patto che il docente riesca a trovare un modo per comunicare con loro. Nelle mie lezioni ho sviluppato un approccio che mi sembra possa offrire un indiscusso vantaggio sul piano della comunicazione: cerco di coniugare Letteratura e Teologia. Che cosa intendo trasmettere loro? Anzitutto, mi sono ripromesso di non recare loro danno: primum non nocere! Non posso insegnare teologia come la si insegnerebbe in una facoltà teologica. Piuttosto, mi impegno a mostrare la bellezza e il fascino del Mistero cristiano. E in secondo luogo, si può dire che il mio impegno consiste nel cercare di suscitare negli studenti un interrogativo, un dubbio… Poi, ricorderò sempre la testimonianza di una studentessa che, al termine dell’esame, mi disse testualmente: “La ringrazio, professore, perché con le sue lezioni mi ha mostrato un volto diverso di Chiesa. Me ne ero allontanata, ma mi ha fatto venire voglia di riavvicinarmi”. Ecco, questo è ciò che davvero conta».
Il distinto studioso mi pare troppo preciso nello scrivere, attento nel parlare, capace di complesse ricerche restituite su collane e riviste scientifiche tra le più prestigiose al mondo per cedere al sentimentalismo. Tuttavia, è anche conscio che la sua missione è di carità intellettuale, ossia orientata a mostrare ai suoi alunni la bellezza del messaggio cattolico. Lo metto alla prova con un quesito solo all’apparenza banale: come si può definire la teologia e qual è il compito del teologo?
«A questa domanda», mi viene replicato, «cerco di offrire una risposta durante le lezioni inaugurali dei miei corsi di teologia in Cattolica. In genere esordisco un po’ provocatoriamente citando Jorge Luis Borges, il quale scriveva che “La filosofia e la teologia sono due generi della letteratura fantastica. Due generi splendidi”. Forse è vero il contrario, se – come dice Tolkien – “i Vangeli contengono una favola o meglio una vicenda di un genere più ampio che include l’intera essenza delle fiabe”. In ogni caso, dopo aver offerto agli studenti alcune definizioni “classiche” di teologia attinte in particolare da sant’Agostino e da sant’Anselmo d’Aosta, e aver precisato la duplice prerogativa della teologia di essere sia scienza che sapienza, cercando di offrire una definizione meno “convenzionale”, chiedo loro: “Che cosa fanno i teologi?”. La mia risposta, che in genere non manca di suscitare nell’uditorio sorrisi di commiserazione, è la seguente: “Si divertono a giocare!”. La teologia è un gioco. Chi mai potrà sostenere una simile affermazione? Sicuramente qualche bizzarro pensatore postmoderno, forzatamente anticonformista, si potrà pensare. Nient’affatto! Si tratta di Tommaso d’Aquino, non esattamente un autore a noi contemporaneo! Nel Proemio al suo Commento all’opuscolo teologico De hebdomadibus di Severino Boezio, infatti, san Tommaso cita un passaggio del Siracide: “Corri a casa, là raccogliti in te stesso, gioca…” (32, 11-12). Egli spiega che, per occuparci della sapienza, occorre prima liberare la nostra mente da tutte le preoccupazioni, quindi correre a ritirarci nella casa interiore, rientrando cioè in noi stessi, e poi come, fatto questo, si possa iniziare a… giocare».
Rilancio divertito: occuparsi della sapienza non può trovare miglior termine di paragone se non il gioco: «Precisamente», mi viene confermato, «nel modo in cui giocano i bambini, i quali giocano per giocare. Il gioco, così inteso, non ha altro scopo se non sé stesso, proprio come l’occuparsi della Sapienza non ha altro scopo se non la Sapienza stessa. A questo punto, l’Aquinate ricorre a un altro versetto biblico, questa volta attinto dal libro dei Proverbi: “Giocavo davanti a Lui in ogni istante” (8, 30). Queste parole sono pronunciate nientemeno che dalla Sapienza. Il teologo, dunque, è colui che partecipa al gioco della Sapienza».
Gli esempi non si arrestano: «Se ne potrebbe dare anche una seconda definizione: il teologo è un “impressionato”. E anche, qui, come si può immaginare, appare non poco sconcerto sul volto di chi mi ascolta. Eppure, la mia affermazione è una semplice conseguenza che traggo dalla definizione di teologia che offre san Tommaso: “la teologia”, scrive “è come una impressione della scienza divina in noi (quaedam impressio divinae scientiae in nobis)”. Dunque, il teologo è colui che si lascia “impressionare” dallo splendore della Teologia, della Scienza e della Sapienza divina. Ritengo che queste siano tra le più belle definizioni di teologia e di teologo».
Un’ultima battuta fa eco all’argomentazione: «Naturalmente, la dimensione dello studio è imprescindibile. Non dimenticherò mai le parole del mio maestro, monsignor Inos Biffi, astro della teologia milanese, il quale, a una domanda che uno sprovveduto studente gli aveva rivolto, se cioè la teologia si facesse in ginocchio, rispondeva non senza pungente ironia: “La teologia si fa con il sedere…”, per poi proseguire, dopo una breve pausa a effetto: “… con il sedere ore e ore in biblioteca!”».
Ridiamo di gusto, ma è un attimo perché voglio indagare su una questione spinosa: la relazione che sussiste tra la filosofia e la teologia o, se vogliamo, tra la ragione e la fede: «Si deve assolutamente evitare l’equazione filosofia-ragione e teologia-fede. La teologia, come sappiamo, è l’intelligenza della fede, ossia l’intelligenza che la fede ha di sé, cioè l’intelligenza di cui la fede è al contempo soggetto e oggetto. Dunque, l’esercizio della ragione non è solo prerogativa della filosofia. Di più, la ragione è intrinseca alla fede stessa. Senza la ragione, infatti, non avremmo più fede, ma soltanto superstizione. Quanto al rapporto tra filosofia e teologia, direi che anche la filosofia, come la teologia, ha a che fare con la sapienza: è appunto filo-sofia, cioè amore per la sapienza. Tuttavia, mentre la filosofia è lo sforzo della pura ragione naturale che cerca di raggiungere la verità, la teologia è l’esercizio della ragione che si applica al dato della Rivelazione. Esse compiono per così dire un percorso inverso».
Dopo questa doverosa puntualizzazione, il silenzio scandisce i successivi passi mentre ci si muove di nuovo all’esterno dell’edificio custode di tanto sapere. Rimango sempre ammirato dalla sua austerità architettonica: i due chiostri (dovevan essere quattro), uno dorico e l’altro ionico, sono di una finezza mozzafiato a firma del Bramante. Chiedo a bruciapelo cosa si può prevedere per il futuro della Chiesa che pare stia passando attraverso una grande crisi: «Se per crisi s’intende, nel senso più autentico del termine, il momento decisivo in cui non si può più differire una decisione, drammatica, che comporta la necessità di un vaglio critico, di una distinzione, e persino di una separazione, allora sì, penso che siamo di fronte a una “crisi”. Mi rassicura, però, un duplice pensiero: che il timone della Chiesa è saldamente retto dal suo nocchiero, che è Gesù Cristo, il quale conosce bene la rotta. Il secondo pensiero è che la Chiesa vive già di una dimensione indefettibile ed eterna, che è la Chiesa celeste, dei santi e dei beati, mentre noi ci troviamo a metà strada, tra il già e il non ancora. Qualche volta, però, è preferibile e salutare soffermarsi sul “già”…».
Mi accomiato, sebbene mi rimbalzi senza sosta nella testa l’augurio (o il monito?) di soffermarsi sul presente, sul “già” della vita ecclesiale. Sono alla fine rincuorato dai concetti espressi con meticolosa ricchezza di contenuto e non senza rinunciare a un pizzico di umorismo dal professor Davide Riserbato.
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