J.R.R. Tolkien nasce a Bloemfontein, Stato Libero d’Orange nel Sudafrica, il 3 gennaio 1892 da genitori inglesi originari di Birmingham, città dove ritornerà con la famiglia dopo la morte del padre nel 1896. La madre, convertita al cattolicesimo, gli trasmetterà l’amore per le lingue e per le antiche leggende. Ancora in giovane età muore nel 1904 e affida a padre Francis Xavier Morgan – sacerdote cattolico dell’Ordine degli Oratoriani – l’educazione dei figli. John studia all’Exeter College di Oxford, dove ottiene nel 1915 il titolo di Bachelor of Arts. Nel 1919, dopo aver combattuto la Prima Guerra Mondiale con il grado di tenente, diviene Master of Arts e collabora all’Oxford English Dictionary. Dal 1925 al 1945 insegna Lingua e Letteratura anglosassone a Oxford e, in seguito, Lingua e Letteratura inglese fino al ritiro dall’insegnamento accademico nel giugno del 1959. Morirà a Bournemouth, nello Hampshire, il 2 settembre 1973: il creatore di miti – scrive Paolo Gulisano – entrava da quel momento, lui stesso, nel mito.
Tolkien coltiva la sua fede cattolica, il che non è un dato secondario nel luogo e nel tempo storico in cui visse. Quando infatti sua madre, ormai vedova, con i suoi figli diventa cattolica si attira addosso l’avversione dei parenti. L’appartenenza dello scrittore inglese alla Chiesa di Roma aiuta, però, a comprendere il modo in cui leggere le sue opere. Scrive, per esempio, a riguardo della potenza della preghiera, nell’epistola dell’8 gennaio 1944 al figlio Christopher, pilota di guerra: «Se già non lo fai, prendi l’abitudine di pregare. Io prego molto (in latino): il Gloria Patri, il Gloria in Excelsis, il Laudate Dominum; il Laudate Pueri Dominum (a cui sono particolarmente affezionato), uno dei salmi domenicali; e il Magnificat; anche la Litania di Loreto (con la preghiera Sub tuum praesidium). Se nel cuore hai queste preghiere non avrai mai bisogno di altre parole di conforto. È anche bene, una cosa ammirevole, sapere a memoria il Canone della Messa, perché la puoi recitare sottovoce se qualche circostanza avversa ti impedisse di assistervi. Così endeth [termina] Faeder lar his suna [il consiglio del padre a suo figlio (anglosassone)]» (n. 54).
Ciononostante, lo scrittore inglese non ha voluto inserire nella sua narrazione riferimenti espliciti alla sua fede cattolica, anche perché la sua epopea si sviluppa in un’epoca “precristiana” («Il teatro della mia storia – precisa – è su questa terra, quella su cui noi ora viviamo, solo il periodo storico è immaginario»). Tuttavia, è bene sottolineare che oltre a molte allusioni implicite, i valori che innervano il racconto sono riconducibili a quelli del cristianesimo: «Il Signore degli Anelli – ammette il suo autore – è fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica; all’inizio non ne ero consapevole, lo sono diventato durante la correzione. Questo spiega perché non ho inserito, anzi ho tagliato, praticamente qualsiasi allusione a cose tipo la “religione”, oppure culti o pratiche, nel mio mondo immaginario. Perché l’elemento religioso è radicato nella storia e nel simbolismo» (n. 142).
Nondimeno, il glottoteta anglosassone fu molto attento a “subcreare” il suo mondo in modo che assomigliasse al nostro, e pur non volendo fare esplicitamente un’opera catechetica è riuscito a descrivere quelle esperienze che l’uomo compie in quanto uomo (decaduto e redento), svelando il funzionamento del suo animo. In ciò risiede la sua potenza narrativa in grado di rivelare tutta la bellezza dei valori cattolici mostrati non attraverso una teoria estrinseca all’andamento del racconto, ma in actu exercito. La sua opera non ha quindi la pretesa di proporre un insegnamento moralistico (sì, morale!) ed evita perciò di ricorrere all’allegoria. Il suo mancato impiego – pure ben presente nella narrativa fantastica, basti pensare a Le cronache di Narnia dell’amico C.S. Lewis – all’interno del romanzo corrisponde a una precisa scelta di Tolkien, che preferì un’espressione simbolico-metaforica.
Alla luce di questi aspetti, la fede cattolica (fede che – come egli scrive – «mi ha nutrito e mi ha insegnato tutto quel poco che so») permea il romanzo, risultandone un elemento costitutivo ma mai volutamente esplicitato o esibito, capace di costruire e inverare la sua epica, tanto attuale, e di risvegliare quanto di nobile alberga nell’intimo di ogni lettore.
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