Ricordarsi di essere stati bambini è la chiave per riaprire senza supponenza i libri delle fiabe.
Non di rado esse sono scritte più per gli adulti che per i piccoli. E hanno uno strano potere: aiutarci a rileggere la nostra esistenza proiettandola verso orizzonti più vasti e inimmaginabili. Anche quando la vita non sembra sorriderci affatto.
È stata questa l’esperienza di un vero maestro del genere, Hans Christian Andersen (1805-1875), come emerge anche dalla sua autobiografia, La fiaba della mia vita (Donzelli, pagine 752, euro 35,00), nella nuova traduzione a cura di Bruno Berni. Il grande scrittore danese svela alcuni tratti anche poco noti e paradossali della sua personalità. Ma esordisce: «La mia vita è una bella favola, tanto ricca e felice», quando in realtà la sua esistenza fu tutt’altro che fiabesca. Nacque ad Odense, da una famiglia molto povera, figlio di un ciabattino e di una lavandaia rimasta vedova quando Christian aveva solo undici anni. Il ragazzo fu lasciato in balia dei suoi sogni e della sua fantasia alimentata dalle letture infantili fatte col padre.
Fu l’aspirazione a questo mondo fiabesco oltre ai tentativi infruttuosi di apprendere un mestiere a spingerlo lontano. A quattordici anni con pochi spiccioli in tasca, un fagotto a tracolla partì alla volta di Copenaghen: «Abbandonato a se stesso, senza nessuno fuor che Dio in cielo». Provò col canto, la danza e il teatro ma furono tante le porte che gli chiusero in faccia. Dovette sempre fare i conti con i disagi economici, salvato spesso da sussidi di generosi estimatori e protettori o da borse di studio che gli permisero di soddisfare una delle passioni più grandi, i viaggi. Almeno trenta saranno alla fine i tour fuori dalla Danimarca, ben sette volte in Italia, paese che amava come pochi.
Ma sempre con un occhio preoccupato al portafoglio. Non ebbe mai una casa propria né una famiglia, viveva spesso ospite di amici. Anzi la povertà lo costringeva a organizzare la settimana fra i pranzi e le cene a casa dei suoi benefattori. Soltanto negli ultimi anni riuscì a strappare il favore di intellettuali e aristocratici di mezza Europa e a godere della meritata fama anche nel suo Paese. Poeta e prolifico autore di teatro, deve però alle sue Fiabe (da La Sirenetta a La piccola fiammiferaia, da Il tenace soldatino di stagno a I vestiti nuovi dell’imperatore) il successo in tutto il mondo. Ma non furono pochi i critici e i suoi detrattori quando volle cimentarsi con un genere ritenuto infantile. «Mi sconsigliarono assolutamente annota lo scrittore di scriver fiabe, e mi dissero tutti che mi mancava il necessario talento, e che non era cosa per la nostra epoca».
E la sua vita si rispecchia nelle fiabe, basta leggere Il brutto anatroccolo per convincersi che si può nascere anche poveri rifiutati ed emarginati e raggiungere lo stesso traguardi di gloria. Non meravigliamoci allora se il racconto della sua esistenza ricalca questo cliché. Del resto per conoscere la vita di qualsiasi scrittore non è certo l’autobiografia la migliore fonte. Non che i fatti narrati siano inventati. Ma naturalmente Andersen rivela solo in parte le sue nevrosi (portava sempre con sé una fune per calarsi dai piani alti degli alberghi in caso di incendio), l’ansia di riuscire o il suo carattere difficile (Dickens dopo averlo ospitato pare avesse preparato un cartello: «Hans Andersen ha dormito in questa stanza per quattro settimane che alla famiglia sono sembrate un’eternità»).
Come però nelle sue fiabe il bene è superiore al male, così a lui premeva soprattutto far passare il messaggio che nella vita non bisogna mai darsi per vinti. Basta crederci, sorretti da quella certezza posta nell’incipit dell’autobiografia: «La storia della mia vita dirà al mondo ciò che essa mi dice: esiste un Dio amoroso, che conduce ogni cosa a miglior fine».