E’ il filo rosso dell’abbondono terapeutico e di un indolente lasciar morire, quello che tiene insieme le due storie che vi raccontiamo oggi.
Una di queste è il caso di Shanti Della Corte, rimbalzato su tutti i giornali, perché per quanto ci si possa assuefare al concetto di eutanasia come diritto di essere “liberi fino alla fine” (come amano ripetere i nostrani Radicali) non può non destare scandalo la decisione di una poco più che ventenne di ricorrere al suicidio assistito, dopo essere sopravvissuta, in Belgio, agli attentati terroristici del 2016, in cui avrebbe, al contrario, visto morire alcuni amici che le erano accanto.
Un concetto della vita o del vivere che nella nostra società deve avere maturato in sé qualcosa di malato se, la giovane donna, all’interno di un evento così nefasto e violento, non sia proprio riuscita, a percepire la fortuna, di più, la gratitudine e la gioia di essere una vera e propria “sopravvissuta”, chiamata alla vita, di fronte ad una simile strage. E, invece, no, dopo aver consultato specialisti e tentato una terapia a base di antidepressivi, è stata accompagnata, col “sostegno” dei parenti, nella sua richiesta di eutanasia volontaria, che in Belgio è possibile ormai da anni, per «sofferenza psicologica costante, insopportabile e incurabile».
E’ evidente che ciò presuppone una concezione dell’esistenza molto labile, in cui la vita è degna di essere vissuta finché va tutto bene, ma quando il gioco si fa duro, anziché lottare, cadendo e rialzandosi fino ad imparare a stare in piedi nella situazione in cui ci si trova, si preferisce arrendersi di fronte alla prospettiva illusoriamente allettante, del porre fine in un attimo alle proprie sofferenze e con l’aggravante, come in questo caso, del sostegno dei parenti.
Un’ottica del “lasciar morire” che rischia di spostare l’obiettivo primario della medicina dall’eliminazione della sofferenza, all’eliminazione del sofferente. Così come ci dimostrano i sempre più numerosi casi di interruzioni delle cure, dei supporti vitali, da parte delle strutture sanitarie, laddove il paziente non sia più nelle condizioni di intendere e di volere e, considerato più o meno alla stregua di un fardello inutilmente costoso per lo stato, vada perciò abbandonato al suo destino, senza pietà.
Così come accaduto ad Amelie de Linage, madre di 5 figli che nel 2014, dopo un arresto cardiaco e in seguito alle dichiarazioni del suo medico che aveva definito il suo cervello ormai “distrutto” era stata sottoposta a ventilazione meccanica, nutrizione e idratazione artificiale, almeno inizialmente.
Ma che ad appena cinque giorni dal suo ricovero, non era stata più né idratata né nutrita e, nonostante le suppliche del marito, in seguito, si era vista deprivata persino della ventilazione meccanica. Il medico che la seguiva aveva, infatti, candidamente affermato che “il suo progetto di vita è morire”.
Eppure, mandando all’aria tutte le sentenze di morte e i più cupi pronostici, qualche tempo dopo, la donna aveva cominciato a respirare da sola. Una nuda e cruda evidenza che non aveva (nemmeno questa) convinto i medici a mettere in discussione la diagnosi di “fine vita”. E’ stato necessario il risveglio di Amelie dal coma, dopo 15 giorni, senza nutrizione e dopo aver pronunciato chiaramente “Ho fame” a ribaltare la situazione.
Al punto che, dopo essere stata dimessa, la donna ha citato in giudizio il primario del reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Roche-sur-Yon per “cattiva condotta etica”. Un fatto che desta sicuramente indignazione, ma forse non stupore, se si pensa che questo caso di abbandono terapeutico ben si sposa con la mentalità che ha portato anche al ricorso al suicidio assistito da parte di Shanti: ovvero una normalizzazione dell’indifferenza di fronte alla sofferenza che arriva fino a contemplare la volontaria cessazione della vita, anche laddove non ci siano vere e proprie ragioni per farla finita. Perché, in questa visione mortifera della vita, la cura è semplicemente lasciar morire, eliminare il sofferente, anziché che farsi carico della sua sofferenza.
(Immagine: a sinistra Shanti De Corte nella sua foto profilo su Facebook; a destra Amelie de Linage nella sua foto profilo su Twitter)
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