Con il viaggio in Mongolia il Papa ha continuato a “circondare” la Cina, perché il paese mongolo sede del 43esimo viaggio papale, si aggiunge alla Corea del Sud, Giappone, Filippine, Birmania e Kazakistan, altri Paesi visitati da Francesco e che, in qualche modo, sono intorno a Pechino. Il viaggio in Mongolia, paese strategicamente situato tra Russia e Cina, si può in un certo senso ritenere parte di quel lento e periclitante processo di avvicinamento all’impero cinese che è stato iniziato da papa Bergoglio fin dalla sua elezione nel 2013.
L’immagine finale della messa di Francesco celebrata a Ulan Bator, quella con il cardinale John Tong e il cardinale eletto Stephen Chow, rispettivamente vescovo emerito e vescovo ordinario di Hong Kong, è la plastica fotografia di questa attenzione del Papa per la Cina. È il sogno del gesuita missionario, condotto quasi con speranza teologica, più che con ottimismo terreno, visto che le reiterate aperture della Santa Sede non sono certo ricambiate nei fatti con altrettanta apertura da parte del regime cinese.
Basti pensare al famigerato accordo segreto che nel 2018 Francesco ha fortissimamente voluto per la nomina congiunta dei vescovi da parte del Vaticano e di Pechino. Il problema è che dopo il rinnovo dell’accordo nel 2022 il governo cinese ha preso in mano il pallino, spingendosi a nominare almeno un paio di vescovi senza sentire il Papa.
Ma anche ieri sull’aereo di ritorno dalla Mongolia, Francesco ha fatto sapere la sua volontà indefessa di aprire una Via della Seta: «I canali sono molto aperti per la nomina dei vescovi e c’è una commissione che da tempo lavora con il governo cinese e con il Vaticano. Poi ci sono alcuni preti o intellettuali cattolici che sono invitati spesso nelle università cinesi a tenere corsi. Credo che dobbiamo andare avanti nell’aspetto religioso, per capirci di più e perché i cittadini cinesi non pensino che la Chiesa non accetti la loro cultura e i loro valori e dipenda da un’altra potenza straniera».
Il Papa aveva persino salutato, come è prassi, il presidente cinese Xi Jinping mentre sorvolava lo spazio aereo della Cina all’andata nel volo Roma-Ulan Bator. E questa volta è persino arrivata la risposta, con le parole del portavoce del Ministero degli Esteri: la Cina «è pronta a continuare a lavorare con il Vaticano per impegnarsi in un dialogo costruttivo, migliorare la comprensione, rafforzare la fiducia reciproca per miglioramento delle relazioni tra i due Paesi».
Ma alla grande speranza di Francesco non corrisponde poi nei fatti una concreta apertura da parte di Pechino, basti pensare a un gruppo di vescovi che pur essendo riconosciuti dall’accordo bilaterale, sono tenuti sotto sorveglianza, altri vescovi, una decina, sono agli arresti e di altri quattro vescovi “clandestini” non si hanno notizie. Questi vescovi “clandestini” sono tali perché sono sempre rimasti fedeli a Roma a costo di sacrificare la propria libertà e persino la vita. Una situazione imbarazzante che però non ferma la lunga marcia del Papa sulla Cina, tanto che recentemente tramite la Segreteria di Stato è stata chiesta una forma permanente di dialogo con sede a Pechino; e il cardinale Zuppi, incaricato da Francesco sulla via della pace tra Russia e Ucraina, sta progettando l’ultima tappa della sua missione che dopo Kiev, Mosca e Washington, appunto lo condurrebbe nella capitale cinese.
Per Pechino ci sono e ci sono state molte occasioni, finora disattese, per passare dalle felpate e melliflue parole della diplomazia ai fatti concreti di autentica libertà religiosa, a Roma, invece, non resta che continuare a sperare di quella speranza che Paolo di Tarso indicava ai romani.
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