di Maurizio Blondet
Riflettevo: che stomaco forte, l’Italia. Ingoia scorpioni come niente fosse. Seppelliti la moglie e i bambini sgozzati dal marito e padre, il palestrato Carlo Lissi di Motta Visconti, li ha già digeriti; tutt’al più alcuni fanno la passeggiata digestiva alla casa dell’orrore, la fotografano con lo smartphone, e si fanno dei selfie. Sui media, l’eco del fatto è già finito; nessun «autorevole» opinionista, alto commentatore e fine intellettuale, ha ritenuto di analizzare l’evento (1). Che coscienza callosa ha l’Italia oggi: ha archiviato il fatto (non il primo del genere, anche se finora il più efferato) nel catalogo dell’imponderabile, dell’inspiegabile abisso di una psicologia individuale. Così non ha bisogno di spiegarlo. È comodo. È comodo evitar di riconoscere che l’informatico trentunenne sgozzatore dei suoi bambini, è stato reso così dalla pedagogia onnipervasiva, dall’educazione (anti-educazione) dominante, progressiva, anti-repressiva e consumista della secolarizzazione compiuta. È il «progressismo che non sa trasmettere il progresso», secondo il motto di Ortega y Gasset. Quello che, precisamente, non è capace – non vuole – trasmettere la civiltà ai «barbari verticali» che nascono fra noi, i nostri figli, sicché ora la società è piena di barbari cresciuti, con la mente ignorante e la coscienza sub-embrionale di bambini di tre anni e la forza fisica, la posizione sociale di un adulto, le nozioni che gli permettono persino di «farsi una posizione», un lavoro e uno stipendio pronti ad esplodere in gesti spaventevoli: che saranno catalogati – digeriti – altrettanto prontamente con le categorie inventate apposta sui media per sfuggire il fondo del problema, come «femminicidio».
«Carlo Lissi si sentiva ancora un ragazzo, curava molto il proprio corpo, si piaceva e gli piaceva piacere. Capelli rasati, pizzetto malandrino… fa sport, va in moto», leggo sulla cronaca di Repubblica. Quanti non ne vediamo così, attorno a noi. Palestrati, tatuati, rasati e depilati: ossia pronti e disponibili per il sesso – che, come gli insegnano la pubblicità, la cinematografia, la continua lezione che viene dalla tv e dalle vite dei VIP – è la sola cosa che conta nella vita, l’affermazione di sé più indispensabile, e inoltre «un diritto» per tutti, e che deve essere «libero», plurimo, facile. Dite che non tutti ammazzano la moglie o la donna, o i figli. Ne siete sicuri?
Prosegue Repubblica riferendo stralci dell’interrogatorio, «nella coppia era lei (la moglie pugnalata), almeno secondo lui, che guidava, che amava, che lo richiamava alle responsabilità crescenti di marito prima e di padre poi». Di grazia: quale istituzione o «agenzia educativa» di massa prepara alle «responsabilità crescenti di padre e di marito»? Quale agenzia – famiglia, scuola, politici, spettacolo – anche solo valorizza tali responsabilità, le fa stimare socialmente, né dà l’esempio? Perché la responsabilità va appresa, ad essa i giovani devono essere addestrati con specifico insegnamento collettivo e con l’esempio dei «modelli sociali».
Questi trentenni come Carlo, che amano tanto il proprio corpo, ossia senza alcuna aspirazione intellettuale né cultura, perfettamente contenti – come l’uomo-massa – di essere «quello che già sono» senza alcuna ambizione di migliorarsi, non possono apprendere alcuna responsabilità leggendo a scuola la Costituzione (più bella del mondo; devono sentirla addosso a sé come pressione sociale, come giudizio immanente che pesa su di loro nella collettività. Ma naturalmente, appunto da questa pressione sociale siamo stati liberati: non siamo più, perdio, in una società «repressiva», che «ti impone quello che devi o non devi essere», a cui «la Chiesa impone i suoi tabù». Genitori divorziati, coppie rimesse insieme, mamme che presentano ai figli «il mio nuovo amico», impartiscono il messaggio contrario: nessuna responsabilità, conta solo il perseguimento della propria individuale felicità, evitare ogni «frustrazione», sfuggire ogni «situazione stabile». La politica che impone leggi a riconoscimento dei «diritti» dei gay a sposarsi, dei trans a cambiare sesso, e complessivamente il diritto ad ogni mania mentale, vizio o perversione di «potersi esprimere», mandano questo messaggio: responsabilità, nessuna. Sforzo personale, non ne fate.
La virilità non consiste più nella lotta leale – misurarsi coi forti e rispettare i deboli – né nell’imparare a combattere ossia a sopportare privazioni, solitudine, difficoltà, ferite esistenziali senza abbattersi, affrontare a viso aperto la sofferenza e il pericolo, la costanza nella difficoltà che un tempo si chiamava «fortezza» (2) e i greci chiamarono «andreia», maschilità. No: basta palestrarsi, tatuarsi – ed anche depilarsi perché dopotutto l’uomo oggi «può esprimere il suo lato femminile» – come prescrivono i rotocalchi di gossip.
La formazione del carattere? Non fa più parte di alcun curriculum. La cronaca ci racconta che , «pare, alla vigilia delle nozze l’imminente sposo di una donna di sei anni più vecchia, avesse provato a fermare tutto dicendo di non sentirsela più ma lei tenne duro, gli disse che così le avrebbe rovinato la vita». Anche di queste donne mi pare di conoscerne a centinaia; sono anch’esse un prodotto-standard delle illusioni della commedia rosa che – sui rapporti fra i sessi – impartiscono incessantemente l’industria dello spettacolo, il cinema e le telenovelas, la psicologia e la posta del cuore: il sentimento anzitutto, innamorarsi del bel barbaro dall’aria malandrina, «sceglierlo» perché lei sì «ha carattere», anche lei ha «diritto a consegnare il suo sogno»… ma in realtà premuta (tale è il risultato della «libertà della donna» in questo campo) dalla paura di restar sola («Se questo mi lascia, non trovo più nessuno»; «libera» in teoria, ma imperiosamente incalzata alle spalle dalla scoperta che la propria vita «è tempo, non tempo immaginario infinito, ma tempo limitato, tempo che finisce, tempo irreparabile» – un’altra scoperta a cui nessuna agenzia educativa prepara la neo-selvaggia, e che solo le suggerisce l’oscuro orologio biologico interno, il metronomo muto uterale che avverte la femmina,tic-tac tic-tac, che sta finendo il tempo della fecondità. Questa angoscia zoologica, imperiosa, le dà il diritto di forzare il fuco palestrato: «Se mi lasci mi rovini la vita». Argomento singolare, come possiamo giudicare col senno di poi.
Ci sarebbe da aprire una parentesi sull’apparente incapacità di queste donne «evolute» ad accorgersi della pericolosità belluina del tipo d’uomo che si tirano in casa; anche se, forse, questo tipo maschile è così «la normalità» statistica, così banale e comune, che aspettarne uno migliore, ormai rarissimo e forse inesistente, significa rassegnarsi allo zitellaggio. Ma allora sarebbe da chiedersi fino a che punto le povere, le miserevoli donne «liberate» hanno contribuito a formare questo uomo senza virilità, incolto e vuoto, non rifiutandosi a lui, contentandosi di lui, giocando nel rapporto tra i sessi il gioco equivoco — anch’esso prescritto dall’ideologia «trasgressiva e senza tabù».
Provo a spiegarmi. Vengo da una breve vacanza marina in Turchia, dove mi sono sottoposto alla rituale «gita in caicco» per vedere una costa che non conoscevo — la costa, sia detto incidentalmente, dell’antica Alicarnasso dove nacque il grande storico Erodoto, di fronte a Kos che vide i natali di Ippocrate medico, 2500 anni orsono. Mi son trovato a navigare con una affiatata compagnia di centro-italiani: vocianti, fumanti sigarette duty free, hanno sùbito occupato il posto migliore, il quadrato di poppa all’ombra, sottraendolo agli stranieri che formavano l’altra metà di passeggeri, silenziosi al sole. Non solo maleducati, ma ostentanti maleducazione, esagerandola come recitassero in una commedia dell’arte: insomma, italiani medi in vacanza. Hanno parlato solo di un tema: il sesso. Come lo facevano, quante volte l’avevano fatto, con chi. Ma soprattutto, mi hanno agghiacciato le donne della compagnia: l’aggressiva volgarità con cui raccontavano i loro fatti di sesso, i supposti intimi; ad alta voce, vantandosi, esibendo o fingendo di esibire (è forse un obbligo sociale, in vacanza?) i loro desideri sessuali per qualche uomo presente, l’animatore della comitiva in particolare. Tutte donne fra i trenta e quaranta, con facce men che comuni ma ben tenute fisicamente (dieta e palestra), esibivano il tatuaggio-standard: una rosa tatuata sopra l’inguine, visibile grazie al bikini ultra-ridotto, allusiva delle gioie che erano capaci di dare con l’organo situato poco più sotto. Il tatuaggio-tipo delle pornostar; ma quelle non erano pornostar, erano impiegate pubbliche, alcune – se ho ben capito – infermiere di ospedali regionali, alcune sposate, alcune col marito a bordo.
Non gliene faccio una colpa, sono condizionate ad essere così; il conformismo dell’anticonformismo è diventato la scorza spessa di molti ceti. Il punto è che il proporsi agli uomini come oggetti sessuali le fissa in un’infelicità di cui sono oscuramente coscienti: poiché non hanno null’altro — non hanno coltivato il fascino e il mistero, né la grazia o il pudore, spogliate di delicatezza e gentilezza, private o privatesi dell’aura numinosa della femminilità, mettono sul mercato «solo» quello. Il minimo comun denominatore: che è comune nel senso che gli oggetti di desiderio sessuale sono comuni a tutte le concorrenti, le mette in concorrenza senza speranza con le più giovani; ancor più grave, gli oggetti sessuali sono intercambiabili, mentre ciascuna di loro – soprattutto – vorrebbe essere «amata per me stessa, per quella che sono». Per la sua unica, insostituibile personalità.
Qui è la base del fatale equivoco, credo, che può giungere al delitto. Il barbaro verticale, il neoselvaggio, scopre che alle piacevoli mammelle, al sedere e la passerina che l’hanno attratto, c’è attaccata una «personalità». Un altro «io» che gli somiglia, che anche lui pretende il suo «diritto alla sua felicità», o al piacere, che come lui non è stato educato a nessuna docilità, chiuso a ogni miglioramento di sé, narcisistico, superficiale, banale nei desideri e soffocante nelle pretese, di nessuna profondità e nessuna comprensione per il prossimo: un altro sé stesso. In una parola, una personalità insopportabile, antipatica e urtante. Con la quale, dopo il sesso, non si ha voglia di stare un’ora, di prendere un the o di fare conversazione (conversare di che, poi?). Al neoselvaggio può succedere questo: che continua a volere la passerina, ma non vuole assolutamente la «personalità» che viene con essa, non la sopporta, la rigetta. Tanto più se l’ha privato, ponendogli sulle spalle le responsabilità di marito e padre, della vertigine delle possibilità che ci hanno abituato a considerare «la libertà». Possibilità di altre donne, di altre avventure, possibilità per lo più immaginarie: ma che cos’altro fa la pubblicità, cos’altro fa il cinema, se non eccitare le possibilità immaginarie di soddisfazione dell’io in personalità immature? Farle proliferare, ingigantire all’infinito, al delirio di onnipotenza? C’è persino uno slogan che dice: «Immagina, puoi».
Quella sera, confermano le cronache, «Fuori piove forte, Carlo e Maria Cristina fanno l’amore lì dove sono, in salotto. Poi lui si alza, si infila le mutande, va in cucina, prende un coltello a lama lunga, torna alle spalle della moglie e affonda il primo taglio. Lei lancia un urlo: «Carlo! Ma perché? Carlo, no!».
Quanto è giustificata la domanda esterrefatta dalla povera vittima. Quanti luoghi comuni illuminati (ossia menzogneri) manda in frantumi quello che ti pugnala sùbito dopo aver fatto sesso con te. Sono alcuni dei luoghi comuni fondamentali della vulgata permissiva, cristallizzati persino in slogan propagandistici storici: fate l’amore non fate la guerra recitava uno, a suggerire l’ideologica convinzione che la violenza negli esseri umani venga da qualche «repressione moralistica», ossia dall’educazione degli impulsi, anzitutto sessuali; e liberando la sessualità, al contrario, la violenza si placa. L’altro pilastro ideologico di cui la povera Maria Cristina ha colto la falsità – ahimè troppo tardi – è che l’atto sessuale sia in sé un atto d’amore. Un terzo, vuole che un atto sessuale fra coniugi, sul divano, sia benefico e curativo, facile e giusto; corollario della più generale teoria secondo cui il sesso è «bello», oltreché un bisogno «naturale» come il mangiare.
Ovviamente. Non è interesse della pubblicità e della propaganda permissiva istruire che il sesso, invece, è qualcosa di problematico, che è pericoloso da maneggiare per gli immaturi e impreparati, l’appressamento a un abisso immisurabile, a cui l’antichità alluse nel mito del Minotauro, gigantesco uomo-toro che soffia nel labirinto. Nessuno ha mai collegato la possibilità che un atto sessuale «riuscito» con una donna che non si sopporta possa provocare repulsione, scatenare la revulsione e il disgusto, e la voglia di farla finita.
«Carlo! Ma perché?». Lui risponde con un pugno in faccia, e altre cinque coltellate («di una ferocia spaventosa», per gli inquirenti) per finirla. Dopodiché, in mutande, sale le scale della villetta: Giulia, la figlia di quasi 5 anni, dorme nella cameretta al piano di sopra, e così Gabriele, 20 mesi, parcheggiato nel lettone dei genitori.
«Sono entrato da Giulia. Era a pancia in su. Le ho dato una coltellata alla gola. Dopo che ho estratto la lama, si è girata di lato e così è rimasta. Poi sono andato in camera da letto dove c’era Gabriele e anche a lui ho dato un’unica coltellata alla gola».
Poi si crea un alibi raffazzonato – da cretino, da neoselvaggio robotico: si auto-invita da un amico per vedere la partita in tv, sono in tanti davanti alla tv, lui come gli altri urla, fa il tifo, grida insulti razzisti a Balotelli… insomma lo standard. Normale. Sa già cosa farà al ritorno a casa: chiamerà il 112, farà la scena del padre disperato davanti ai bambini nel lago di sangue rappreso, ha la sensazione di averla avuta vinta, di essere tornato «libero». A cose fatte, dopo aver ammesso il fatto, confesserà di essere innamorato di una giovane collega d’ufficio; ecco, ha voluto riaprire per sé il vertiginoso vortice delle possibilità – per lo più immaginarie – che la famiglia gli aveva chiuso.
«Non era meglio divorziare?», gli ha chiesto il procuratore Giovanni Benelli, che l’ha interrogato. Domanda in sé istruttiva, rivelatrice dell’ideologia dominante ufficiale, nella Legge e nei suoi rappresentanti: vi abbiamo dato il divorzio, la legge che «risolve questo tipo di problemi», che «soccorre le coppie in crisi», e consente di recuperare le felicità dello stato civile single senza drammi; perché ricorrere alla strage, alla tragedia micenea? Non serve più… La pronta risposta del Lissi, benché orrenda, è più realistica e persino – date le premesse della a-civiltà attuale – più sensata che la domanda del magistrato: «Il divorzio non avrebbe risolto, perché i figli sarebbero comunque rimasti». L’assassino ha giustamente messo il dito sull’insufficienza dell’istituzione, ha scoperto una falla nella norma.
Non dubitiamo che in un prossimo futuro, la politica sempre più intenta a legalizzare ogni piacere trasgressivo, proporrà una riforma della legge sul divorzio per «risolvere il problema-figli» che sono palle al piede. Il combinato disposto con la legalizzazione dell’eutanasia potrebbe essere d’aiuto.
Tutto quanto sopra, non l’ho scritto da una qualche posizione di superiorità morale. Al contrario: ho fin troppe prove che il mio satana interiore, il mio io ingordo ed egoista, infingardo e narciso, è capace di prendere possesso di me a sorpresa, e condurmi ad atti che differiscono da quelli commessi da Carlo Lissi (o dalle ragazze con la rosa tatuata) solo per intensità, non per natura. Anche a me, come a voi, manca la pressione sociale che un tempo dirigeva al bene, anch’io sono infettato dalla mentalità permissiva ed edonista in qualche misura, insomma dall’irresponsabilità di cui vediamo continui esempi ed incitamenti attorno a noi – siamo figli del nostro tempo, chiusi (lo vogliamo o no) nella nostra «circostanza» storica, sociale, psicologica. La sola cosa che forse mi distingue da quelli sopra descritti, non mi appartiene: è il sapere che c’è un Crocifisso che stanco a forza di chiedergli perdono, e a cui torno da peccatore ogni volta.
Di questa prospettiva sono privi i Lissi e le ragazze tatuate, non per loro colpa: è il sistema che l’ha espunta dall’uomo-massa, ed è il vero successo del progressismo trasgressivo, ciò a cui mirava dal principio: ci ha chiuso in un mondo di perdizione (3).
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1) Una sola eccezione: lo psichiatra Vittorino Andreoli, interpellato dall’inserto femminile del Corriere della Sera (che, istruttivamente, si chiama IO Donna). Significa chiedere il parere di un «tecnico», come se la strage compiuta dal marito e padre fosse un caso psichico. E infatti Andreoli dà il parere tecnico, ossia sfuggente rispetto al nucleo del problema: «Lissi, come molti oggi, è una persona incapace di gestire i sentimenti». A cui vien voglia di chiedere: di grazia, dove mai si insegna la burocratico-tecnica «gestione» dei sentimenti? Al contrario, tutte le agenzie educative, anti-educative e mediatiche incitano a lasciare libero sfogo ai cosiddetti sentimenti, a scatenarli, a lasciarli esplodere, esprimere, a non reprimerli. E’ l’obbedienza ai propri impulsi primari o immediati, quella che viene incessantemente promossa e portata ad esempio. Andreoli aggiunge: Carlo Lissi « non sa perdere, non sa accettare un no, non sa reagire alle frustrazioni, la sua logica è individuale, pensa solo a sé. Ed è privo di senso morale, inteso come sentimento e rispetto per gli altri. Ciò che conta e che gli interessa sono solo le sue personali pulsioni». Ignaro, o forse cosciente, che sta descrivendo esattamente il neo-barbaro di massa che ha preso il suo posto di adulto dominante nella società senza essere stato prima civilizzato.
2) Dal Catechismo della Chiesa Cattolica: (p.1808) «La fortezza è la virtù morale che, nelle difficoltà, assicura la fermezza e la costanza nella ricerca del bene. Essa rafforza la decisione di resistere alle tentazioni e di superare gli ostacoli nella vita morale. La virtù della fortezza rende capaci di vincere la paura, perfino della morte, e di affrontare la prova e le persecuzioni. Dà il coraggio di giungere fino alla rinuncia e al sacrificio della propria vita per difendere una giusta causa». La definizione di «virtù» è «buona abitudine». Le buone abitudini si apprendono, ad esse si deve venire addestrati – ossia educati, con la costruzione e l’esempio. E chi dovrebbe assumersi questo compito nella società? Il Catechismo non lo spiega.
3) Per capire di cosa ci è riuscita a privare la secolarizzazione compiuta e illuminata, ripeto una citazione di Julius Evola: Il termine «tradizionale» – lo dirò qui una volta per tutte – nulla ha da spartire con il termine «conservatore». Una Società Tradizionale non è tale perché adotta le leggi, i costumi e i precetti morali del passato – il che sarebbe «tradizionalismo», un ridicolo scimmiottamento di ciò che è già superato – bensì perché si rifà al «principio tradizionale», il quale afferma che all’interno di una collettività che voglia dirsi in linea con l’evoluzione del Cosmo, tutti i cittadini si dedicano alla propria realizzazione interiore, ognuno al suo livello e in accordo con le caratteristiche personali. In una società autenticamente tradizionale l’elevazione spirituale dell’individuo è vissuta come l’unico scopo della vita cosciente di un essere umano. Ogni altra attività – politica, economica, scientifica, educativa, artistica – ruota intorno a tale principio e ne è la manifestazione».