Che cos’è il matrimonio? È una domanda per la quale, fino a qualche tempo fa, sembrava possibile una sola risposta. In effetti, il matrimonio era sempre stato lo stesso, per lo meno nelle sue caratteristiche essenziali. Non era nemmeno immaginabile avere dubbi al riguardo. Salvo poi aver scoperto, quasi all’improvviso, che nella nostra post-modernità liquida le cose non stanno più così. Anzi, che sono proprio la Chiesa e lo Stato, le secolari autorità che hanno sempre garantito la certezza di quell’unica risposta, che stanno rimettendo tutto in discussione.
Si può fare notare che l’indissolubilità del matrimonio è nata solamente con il cristianesimo, mentre l’umanità ha sempre conosciuto il divorzio, dai tempi del Codice di Hammurabi. Cioè, fin dall’inizio della storia, migliaia di anni prima di Cristo. Per non parlare della poligamia, che come tutti sanno nelle antiche società tribali era riconosciuta e diffusa, e tuttora sopravvive in alcuni contesti. Tuttavia, persino Claude Lévi-Strauss, un grande antropologo del Novecento che si è distinto per aver messo in discussione strutture sociali che si credevano immutabili, è arrivato a riconoscere che, nella sua forma essenziale, il matrimonio si ritrova sempre uguale a sé stesso in tutte le civiltà e in tutte le epoche, anche in quelle più distanti tra di loro nello spazio e nel tempo.
L’argomento può sembrare puramente teorico e speculativo. Ma in realtà riguarda la vita di tutti, e gli aspetti più decisivi dell’esistenza individuale di ognuno di noi. In questi giorni, il tema dell’essenza del matrimonio si è riproposto in due ambiti molto diversi, uno ecclesiastico e l’altro statuale. Si tratta di ordinamenti reciprocamente autonomi tra loro ormai da secoli, ma che conservano in comune – o almeno dovrebbero – il riconoscimento dell’importanza capitale delle definizioni per la certezza del diritto.
In primo luogo, c’è stata la dichiarazione Fiducia Supplicans, del Dicastero per la Dottrina della Fede, della quale i media di tutto il mondo hanno trattato con grande clamore. E subito dopo, qui in Italia, è stata pubblicata una decisione della Cassazione che i divorzisti più entusiasti si sono affrettati a definire storica. Nel primo caso, sono state definite le condizioni alle quali i sacerdoti cattolici possono (o debbono?) impartire una benedizione a quelle coppie che la Chiesa è rimasta l’ultima – e a malapena – a definire “irregolari”.
Nel secondo, si è trattato di una sentenza della Suprema Corte che ha stabilito che, per determinare l’entità dell’assegno di divorzio, si debba tenere conto, in determinate circostanze, anche del periodo nel quale una coppia ha convissuto prima del matrimonio. Possono sembrare due decisioni che non c’entrano niente l’una con l’altra. Ma la domanda che entrambe presuppongono, rispetto alla quale non possiamo più offrire una risposta univoca, è la stessa. Che cosa, dunque, è un matrimonio?
Il sopra citato Lévi-Strauss rispondeva che, al di là di differenze non essenziali, l’idea del matrimonio che si ritrova in tutte le civiltà è quella di un istituto di diritto pubblico, relativo a due persone di sesso diverso che assumono stabilmente obblighi tra di loro, nei confronti dei figli, e pure dell’intera collettività. Oggi, come tutti vedono, non possiamo più presumere che sia così. Persino la Chiesa, cioè il soggetto al quale il mondo occidentale per secoli ha delegato il compito di celebrare e disciplinare l’istituto del matrimonio (il rito civile è un’invenzione napoleonica del XIX secolo), sembra preferire l’idea per cui ciò che dà vita a un matrimonio non sarebbe tanto la forma, cioè il vincolo giuridico. Piuttosto, alla base di esso ci sarebbe la sostanza “emotiva”, per così dire, di due persone che si amano.
Qualunque cosa, tra l’altro, si intenda con quest’ultimo termine, visto che nemmeno l’idea di amore sembra essere più chiara e univoca. Ora, è pur vero che i sostenitori della “normalità” di quanto sarebbe accadendo nella Chiesa si sono affrettati a dire che la dichiarazione in esame ha solennemente ribadito che non è possibile autorizzare alcuna confusione tra il matrimonio e le altre forme di unione. Tuttavia, resta il fatto che, per la prima volta, ai massimi livelli dell’autorità della Chiesa si è riconosciuto che nella “coppia” di individui – anche di fatto, irregolare, omosessuale – può esistere un quid che è «vero, buono e umanamente valido». (Fiducia Supplicans, n. 31), per il quale si può invocare l’assistenza dello Spirito Santo.
In apparenza, quindi, anche per la Chiesa del XXI secolo, ciò che rende tale il matrimonio sembrano essere più le situazioni di fatto, e le relazioni concrete tra le persone, così come i loro desideri e bisogni, che non il vincolo giuridico. È lo stesso ragionamento che, per l’appunto, è stato riconosciuto dalla Corte di Cassazione. Essa ha stabilito che sì, è ancora vero che il presupposto di un assegno di divorzio consiste nel fatto che prima ci sia stato un valido matrimonio. Tuttavia, per determinare l’entità di questo assegno, ora deve tenersi conto – oltre che della volontà degli sposi di essersi riconosciuti formalmente come tali – della convivenza stabile eventualmente intercorsa tra di loro, in precedenza, senza obblighi giuridicamente vincolanti.
Il nocciolo della questione sta tutto lì. Si sta facendo di tutto – tra le autorità della Chiesa come in quelle dello Stato – per privilegiare le situazioni di fatto rispetto a quelle di diritto. Ma non è possibile scavalcare quella che è diventata una pietra d’inciampo: ciò che rende tale il matrimonio, ancor oggi, non può che essere la natura formale, giuridica e vincolante della pubblica promessa che gli sposi si scambiano. Solo partendo da qui si può capire il dramma nascosto che la nostra società sta attraversando. Rispetto a esso, sia le dichiarazioni dell’ex Sant’Uffizio, sia le prese di posizione della giurisprudenza civile, sembrano non più in grado di metterci una pezza.
Nella realtà, e nella carne viva delle società umane, non può esistere il matrimonio senza un vincolo di natura giuridica, che sia a fondamento di obblighi reciproci tra gli sposi. Nemmeno può esistere un matrimonio che sia tale soltanto nella coscienza e nella volontà dei due coniugi, ovvero nel loro “foro interno”, come dicono i giuristi. Questo perché, per tornare a Lévi-Strauss, la natura pubblica degli impegni nuziali, e cioè il fatto che gli stessi siano formalmente assunti di fronte a tutta la società, è sempre stato e non può che essere un elemento essenziale del matrimonio stesso.
L’antropologo francese ha dimostrato che, all’alba della presenza umana nel mondo, il matrimonio è stato alla base della nascita dell’idea stessa del diritto. Esso, infatti, è stato in assoluto il primo contratto (i canonisti cattolici dicono il “sacramento primordiale”), che nelle tribù primitive venne ideato e stipulato per consentire la nascita di rapporti giuridici – e quindi non solo affettivi, ma anche economici, e commerciali – al di fuori della cerchia dei consanguinei. Pacta sunt servanda, i patti vanno rispettati: questo è il concetto che sta alla base dello sviluppo di ogni civiltà umana, e il matrimonio ne ha costituito il primo modello.
Tuttavia, inspiegabilmente, a partire dalla seconda metà del XX secolo sembra che la civiltà occidentale si sia scordata di tutto ciò. Dagli anni della cosiddetta rivoluzione sessuale, si è fatto in modo di ridurre il matrimonio a un’intesa di carattere puramente privatistico, addirittura intimo, sempre revocabile, e rispetto alla quale nessuno all’infuori della coppia ha il diritto di sindacare. In questo modo, si è arrivati non solo alla diffusione indiscriminata del divorzio, ma anche all’esaltazione degli elementi puramente di fatto – anzi, come dicevamo, a carattere emotivo – nei quali soltanto dovrebbe ritrovarsi la sostanza di un’unione di coppia.
Nonostante ciò, ogni giurista in buona fede, se è abituato ad avere a che fare con le persone reali che divorziano, e ancor prima che non si sposano più, deve riconoscere che la ragione di tutto questo consiste proprio nell’evaporazione dei vincoli giuridici. È questo che impedisce a uomini e donne di fidarsi tra di loro, nonché la causa prima della guerra tra i sessi dalla quale ci ritroviamo travolti ormai da decenni. Uomini e donne oggigiorno sembrano guardarsi in cagnesco, o addirittura odiarsi, proprio perché la mancanza di stabilità del vincolo matrimoniale ha reso impossibile la fiducia tra di loro.
Non è strano che oggi le coppie, anche quelle dello stesso sesso, quando chiedono un riconoscimento della loro unione allo Stato o alla Chiesa, lo facciano semplicemente sulla base di un presupposto di fatto, che rifugge da ogni impegno giuridico. Umanamente, è troppo pretendere che le persone dispongano per tutta la vita della loro persona, delle loro aspettative, dei loro sogni e pure del loro patrimonio, per assumersi obblighi verso chi in ogni momento potrà andarsene per la sua strada, pretendendo soltanto la sopravvivenza dei diritti di mantenimento. Ogni avvocato familiarista sa bene che i giovani delle ultime generazioni rifiutano di sposarsi soltanto perché, in questo modo, sperano di poter salvarsi dalla rovina di una futura separazione, che potrebbe portar loro via, ancor prima della felicità, anche la casa e il lavoro.
La Chiesa cattolica, anche se non vuole, sembra ormai rassegnata ad assecondare questa logica. È per inseguire il mondo che ora sembra sostenere apertamente che ci sia qualcosa di buono da benedire anche nelle unioni dove – benché non sempre per colpa dei singoli – la stabilità degli obblighi reciproci è del tutto assente. Ma nonostante questo, per il fatto di essere “esperta di umanità”, come evidenziò Papa Paolo VI, solo dalla Chiesa di domani potrà derivare un’inversione di tendenza. E lo Stato non potrà di certo precederla, ma solamente – sia pure dopo un lungo periodo di lotte e di devastazione civile e sociale – prenderne di nuovo atto (Fonte foto: Facebook – Pexels.com).
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