Alla sorella di una ragazza morta prematuramente concedo tutto, figuriamoci alla sorella di una ragazza uccisa brutalmente, perciò non mi scompongo se la sento dire: «Gli uomini devono fare mea culpa. Anche chi non ha mai fatto niente, chi non ha mai torto un capello a una donna. Sono sicura che nella vita di ogni uomo c’è stato almeno un episodio in cui ha mancato di rispetto a una donna solo perché donna. Fatevi un esame di coscienza, imparate da questo episodio e iniziate a richiamare anche gli altri vostri amici».
È folle, ma non mi scompongo, al dolore ognuno reagisce come vuole, molto più spesso come può. Non concedo però la stessa impunità a chi a queste parole ha fatto da cassa di risonanza ripetendole, riproponendole, facendone un dogma che vede l’uomo come colpevole a prescindere, come se la responsabilità non fosse personale ma collettiva in base al sesso di nascita. Secondo Elena Cecchettin sua sorella Giulia è stata uccisa «in quanto donna» e quindi siamo di fronte ad un «femminicidio». In realtà Giulia non è stata uccisa “in quanto donna”, altrimenti Filippo Turetta avrebbe ammazzato la commessa, la postina, un’amica, una donna qualunque, invece la furia del ragazzo si è scatenata contro la ex fidanzata. Il movente ancora non è chiaro, ancora non sappiamo tante cose di quanto accaduto quella notte. I tribunali mediatici sembrano comunque avere già deciso.
La sola causa di questo omicidio sembra essere il sesso, meglio “il genere” della vittima e il sesso, o meglio “il genere” del carnefice. I giornali ieri erano un fiume di accuse verso i maschi, rei solo di essere tali. Uno su tutti Paolo Giordano, che sul Corriere scriveva: «La possibilità della sopraffazione è il segreto meglio custodito dagli uomini, e che tutti gli uomini conoscono. Tutti gli uomini, anche i mansueti. Ognuno di noi (maschi), al cospetto dell’omicidio di Giulia Cecchettin, riconosce in sé l’eco dell’ascesso psichico dal quale talvolta scaturisce l’aggressione: un bolo di possesso, frustrazione, inadeguatezza, odio, invidia, terrore, ferocia, propensione all’ossessività, desiderio di punizione e annientamento e di autodistruzione, che ci riguarda tutti ma che rimane cautamente oscurato dal dibattito pubblico». E questa è solo la punta dell’iceberg.
È curioso perché nelle stesse ore a morire per mano omicida c’era un’altra donna, Francesca Romeo, un medico freddato a colpi di fucile mentre si trovata in macchina col marito a Reggio Calabria. Non solo non ha avuto la stessa eco mediatica, non ha avuto nessuna mobilitazione istituzionale, nessuno ha osservato un minuto di silenzio per lei, perché? Forse siccome non possiamo incolpare il marito, questa vita ci interessa meno?
La verità è che nel nostro Paese ci sono molti più uomini morti per mano omicida, questo dicono i dati, questo dice la realtà. Perché la violenza non ha genere, ma se lo avesse, sarebbe più quello maschile ad essere penalizzato, lo spiega bene Giuliano Guzzo nel suo ultimo libro, Maschio bianco etero & cattolico. Questo can can mediatico sul corpo di Giulia ancora caldo ha un solo scopo, una rieducazione collettiva del maschio che va devirilizzato a forza, privato dei suoi tratti di forza e di coraggio perché essi sono stati ridotti solo al rovescio della medaglia.
Sarebbe come dire che dobbiamo rieducare le mamme perché secondo la giustizia Annamaria Franzoni ha ucciso il figlio Samuele, Veronica Panarello ha ucciso il piccolo Loris Stival, Francesca Sbano ha avvelenato la sua piccola di soli tre anni, Mary Patrizio ha ucciso il figlio di cinque mesi, Alessia Piffari ha lasciato morire la figlia di fame e stenti e via dicendo. Ma non regge.
E non regge nemmeno questa pressante campagna per l’educazione “all’affettività” o “al rispetto delle donne”. Se vogliamo accendere un faro sulle tante relazioni malate, allora facciamolo davvero. Uno dei punti chiave rilevati dai giornali in questi giorni è la possessività di questo ragazzo. Ma – posto che non tutte le persone possessive arrivano ad uccidere e non tutti gli assassini sono anche possessivi – allora mettiamo i puntini sulle “i”, il contrario del possesso non è un’astratta forma di rispetto.
Perché se nelle relazioni inneggiamo ad una malintesa forma di libertà che si traduce nel benessere dei singoli fino a che ne hanno voglia, è facile capire che i due potrebbero anche non trovarsi con i tempi, e per qualcuno il benessere possa finire e per l’altro no? Rispetto non significa semplicemente, come vorrebbe il mondo, “accetto che oggi mi vuoi e domani non mi vuoi più”, è qualcosa di più profondo che parte dal fatto che il corpo dell’altro è sacro, la vita dell’altro è sacra e anche il mio stesso corpo e la mia stessa vita lo sono.
Dal riconoscimento della reciproca sacralità deriva una responsabilità nel trattare noi stessi, l’altro e la relazione stessa. Questa è l’unica educazione di cui tutti abbiamo bisogno. I famosi “corsi all’affettività” di cui si parla sono momenti in cui il parametro è il proprio piacere, fino a che si continuerà a proporre il libertinaggio spinto staccato da qualunque tipo di responsabilità, fino a che conta l’emozione del momento, fino a che l’altro è utile solo se nutre il mio piacere e il mio benessere, fino a che normalizzeremo la pornografie e Onlyfans, fino a che diremo che un maschio può diventare femmina, una femmina un maschio o anche niente, o ancora tutto insieme, come potremo stupirci se le relazioni saranno violente e se le persone saranno violente?
La Chiesa è sempre stata attaccata quando ha parlato di castità, perché essa è sempre stata vista come la castrazione di una libertà, eppure solo uno sguardo casto è davvero libero dal possesso. Perché entra nell’ottica del dono da custodire, da preservare, da proteggere, da curare, far fiorire. Solo questo sguardo consente di uscire dalla sterile battaglia tra maschi e femmine per stabilire un’alleanza feconda. Ma questo certamente non è un’argomentazione che troverà spazio nei grandi media, e meno che meno verrà rilanciata. Eppure resta vera. (Fonte foto: Screenshot, Fanpage.it – Youtube)
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