Non so se avete mai visto un uomo morire. Nell’istante in cui una vita terrena finisce, si comprende cosa fosse quell’inquieto e indescrivibile senso di eterno che ci invadeva da bambini davanti a un defunto. Terribile, definitivo eppure ineludibile, quasi attraente. Ineludibile, quasi attraente proprio perché terribile, definitivo.
Anche un bambino percepisce che, nel momento supremo, si cristallizza qualcosa che non potrà più essere mutato. Tutto il resto, i racconti, i ricordi, le chiacchiere consolatorie, le strette di mano, gli abbracci, il pianto è solo un contorno buono per l’animale sociale. L’essere liturgico, anche quando non abbia un credo religioso, si aggrappa al terribile e ineludibile istante in cui si manifesta l’eterno.
Non so se avete mai visto morire un cristiano. Io ho visto morire Mario Palmaro. Nel momento in cui tutto si compie, si comprende che quel terribile e ineludibile istante in cui si manifesta l’eterno sarà sempre lì, a lode del Signore e a giudizio degli uomini, senza peccato di orgoglio perché loda per espressa intenzione e giudica anche non volendolo fare. È il vero trionfo della santità, dei servi di Dio, che accettano di perdere in vita agli occhi del mondo perché sono certi di vincere in morte.
La vita di ogni uomo è sempre soggetta a manipolazioni, a contraffazioni, alla suggestione dei tempi e all’imperio delle mode. Per questo l’esistenza di chi si ribella a Dio trionfa facilmente su quella dei servi del Signore. Gli anni terreni dei cattivi giudicano nel tribunale del mondo gli anni terreni dei buoni. Non così l’istante della morte, che si sottrae al tempo per consegnarsi all’eterno. Allora, nel momento che conta davvero, sono i buoni, è la loro fedeltà a Dio, a giudicare la morte altrui, a darne la giusta misura e segnarne la sconfitta.
Ho fatto queste riflessioni nei giorni scorsi, quando il mondo, con la complicità della neochiesa della misericordia, ha celebrato e accompagnato la povera morte suicida di Fabiano Antoniani, per il secolo Dj Fabo. Qui non si tratta più di battaglie bioetiche e di militanza pro o contro la vita. Si tratta di operare una scelta ben più radicale tra santità e dannazione, tra Dio e la sua scimmia. Mario non è morto da grande giurista, coraggioso studioso di bioetica, da ardito scrittore: è morto da cristiano. Questo è il suo vero e ineludibile testamento. Non cercate di indovinare che cosa avrebbe detto o fatto oggi per trovarne l’eredità. Il suo vero lascito è la morte, a cui si era preparato durante la vita.
Quanto fosse fruttuosa, quella vita, specialmente quando divenne una vita malata con vista sulla morte, l’ho constatato almeno in due occasioni. La prima volta quando un comune amico sacerdote mi confidò di aver offerto al Signore la sua vita in cambio di quella di Mario. “Ma evidentemente” disse con dolore “non ne sono degno. O forse vuole proprio lui”. Per chi crede, questi sono momenti di estrema e intensa confidenza con Dio, perché chi crede sa che il Signore tiene terribilmente in conto l’offerta di se stessi. Tranne che sull’altare, mi riesce difficile immaginare un luogo in cui un sacerdote possa essere alter Christus, con più santa violenza.
La seconda volta è accaduto quando incontrai un monaco che seguiva quanto Mario e io andavamo scrivendo. Non ci eravamo mai visti prima, rimanemmo insieme tutta la giornata, poi, poco prima di lasciarci, lui si tolse un portareliquie dal collo, ne trasse un frammento di canovaccio bagnato dalla Madonna delle lacrime di Siracusa, lo tagliò in due, me ne diede metà, “Questa la porti a Mario”, mi disse. Poi mi consegnò anche un flacone con l’olio di San Charbel, il santo taumaturgo. La metà di quell’olio Mario la diede poi a me, per una compagna di classe di mia figlia, che guarì dalla brutta malattia in cui era caduta.
Quel sacerdote e quel monaco sono due dei miei pochi veri amici. Per questo, anche se ora Mario è morto, grazie a quello che mi ha lasciato, non sono solo.