Per gentile concessione pubblichiamo uno stralcio del libro di Matteo Matzuzzi, Atlante geopolitico del Cattolicesimo. Come cambia il potere dentro la Chiesa, Mondadori, pagg. 171, € 18,90.
(…) C’è un grande equivoco che riguarda ogni ambito del pontificato bergogliano, e cioè l’idea che la collegialità e la devoluzione di competenze e poteri ai corpi intermedi e bassi sia la regola aurea che ha mosso l’azione di Francesco. Si tratta di un errore fondamentale che induce a comprendere in modo errato la natura stessa del pontificato. Francesco ha impresso una chiara verticalità al potere vaticano. Certo, ci sono i sinodi, gli appelli alla collegialità, ma chi decide alla fine è sempre e solo lui.
Lo si vede rispetto alle nomine episcopali, agli atti di governo, alle scelte legislative che non di rado hanno creato imbarazzo ai custodi dei sacri canoni d’oltretevere, stante la proliferazione di rescritti e motu proprio intervenuti anche in processi in corso. Rispetto ai movimenti, è la stessa cosa, tenuto conto delle eccezioni del caso: il papa non ama chi va troppo per la sua strada, magari arroccandosi attorno a una figura carismatica che indica la strada ai propri adepti.
C’è di sicuro l’eco della situazione latinoamericana, con l’incalzare delle sette carismatiche che si sono fatte largo nei decenni conquistando spazi sempre maggiori, ma più che altro Francesco mal tollera le leadership vitalizie, la logica di potere, il rischio che una comunità (o un movimento) possano finire nelle mani di uno solo.
Lo si è visto anche in merito alla vicenda della Comunità di Bose, cui pure negli anni Bergoglio non ha fatto mancare appoggio e amicizia. L’allontanamento di Enzo Bianchi, fondatore e figura di primo piano, conferma ciò. Per due anni, dopo il decreto del segretario di stato vaticano che gli imponeva – assieme a qualche confratello – di abbandonare Bose, si è detto che il Papa era stato male informato dalla solita curia cattiva, che Francesco non era al corrente di quanto realmente accaduto, della portata enorme di tale provvedimento. La visita apostolica ha dimostrato che Bianchi non ha mai di fatto rinunciato realmente all’esercizio del potere nonostante le dimissioni e l’elezione di un nuovo priore, che la comunità era divisa e che dunque a essere compromesso era «il clima fraterno». Al di là del caso specifico, si dimostra ancora una volta che quando di mezzo c’è il potere, non guarda in faccia nessuno: neppure gli amici o presunti tali. Per i movimenti è andata un po’ così.
E ora? Se il grande strumento che Giovanni Paolo II usò per uscire dai rigori invernali non ha più la forza e forse l’entusiasmo di un tempo, su cosa può riporre fiducia la Chiesa per superare anche questa ennesima, ma del tutto normale e ordinaria, crisi che l’attanaglia? La presenza pubblica attiva e “battagliera” dei movimenti non è più ritenuta fondamentale da chi siede sul soglio petrino.
«Dove sono finiti i movimenti ecclesiali, con i loro carismi, capaci di opporre al pensiero dominante l’orgogliosa e sacrosanta reazione di uomini e donne di fede cattolica, con spirito universalistico e senza impostazioni minoritarie per principio, e magari illiberali nel metodo? Siamo obbligati all’indifferenza dei cattolici e della loro gerarchia apostolica e al proliferare di testimonianze condannate allo spirito secessionista e minoritario di piccoli movimenti eticizzanti o di vasti movimenti scollegati dalla realtà della Chiesa?» si chiedeva qualche anno fa Giuliano Ferrara. Il punto è che quella reazione, quell’opposizione al pensiero dominante, non è più richiesta da chi sta al vertice della Chiesa. Se Giovanni Paolo II mandava i movimenti in prima fila nella battaglia e ne esaltava la presenza pubblica, Francesco non la gradisce. Non vuole l’occupazione di spazi né fortini da cui da cui combattere con la la croce in mano quasi fosse un vessillo.(…)
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