Il cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo emerito di Bologna, si è spento all’età di 87 anni l'11 luglio.
Con lui scompare un grande innamorato di Gesù e della Chiesa, un vero testimone della fede cattolica, una guida certa nel difficile compito di testimoniare la speranza cristiana nel combattimento spirituale e culturale di ogni giorno. Era un sincero amico de Il Timone. Lo salutiamo e lo ricordiamo proponendo alla riflessione un suo scritto di grande profondità.
PECCATO E PERDONO NEL DISEGNO DI DIO
di Giacomo Biffi
Colui che nella tradizione cristiana ha espresso con maggior insistenza e vigore la convinzione che il peccato abbia nel disegno di Dio una sua preziosa positività, e pertanto faccia parte dall’inizio del progetto che ha dato l’esistenza a questo universo di fatto esistente, è stato, io credo, sant’Ambrogio.
Egli possiede vivissimo il senso del peccato, della sua gravità, della sua universalità, della sua determinante presenza nella vita dell’uomo. Ma la considerazione del peccato è sempre da lui addotta perché emerga e si imponga all’attenzione la misericordia divina, che ci è data in Cristo ed è la caratteristica primaria di quest’ordine di provvidenza. Di qui l’insistenza con cui afferma la “utilità” spirituale che la grazia riesce sempre a ricavare anche dalle più gravi trasgressioni.
Propongo di riflettere su alcune delle molte frasi ambrosiane che potrebbero essere citate.
"La mia colpa è divenuta per me il prezzo della redenzione, attraverso cui Cristo è venuto a me. Per me Cristo ha assaporato la morte. È più proficua la colpa dell’innocenza. L’innocenza mi aveva reso arrogante, la colpa mi ha reso umile" (De Iacob et vita beata, I, 21).
"Il Signore sapeva che Adamo sarebbe caduto per essere poi redento da Cristo. Felice rovina, che ha una riparazione più bella!". Frase che troviamo poi parafrasata nell’Exultet [della veglia di Pasqua]: “O felix culpa…” (Commento al Salmo 39, 20).
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"Noi che abbiamo peccato di più, abbiamo guadagnato di più, perché la tua grazia ci rende più beati della nostra assenza di colpa" (Commento al Salmo 37, 47).
"Il male ha addirittura in sé un’utilità e il male si è insinuato anche nei santi per un provvidenziale volere del Signore" (Apologia David, 7).
"O Signore Gesù, sono più debitore ai tuoi oltraggi per la mia redenzione, che non alla tua potenza per la mia creazione. Sarebbe stato inutile per noi nascere, se non ci avesse giovato venire redenti". Frase che troviamo riprodotta alla lettera nell’Exultet: "Nihil enim nasci profuit nisi redimi profuisset" (In Lucam II, 41).
"La colpa ci giovò più di quanto non ci nocque, poiché essa diede occasione alla misericordia divina di redimerci" (De institutione virginis, 104).
"Dio ha preferito che ci fossero più uomini da salvare e ai quali poter perdonare il peccato, che avere soltanto l’unico Adamo, il quale restasse libero dalla colpa" (De paradiso, 47).
Il coronamento di questo piccolo florilegio non può essere che lo straordinario pensiero col quale conclude il suo commento ai sei giorni della creazione. E proprio il numero delle citazioni fin qui fatte (che poteva essere molto accresciuto) ci persuade che l’affermazione non è dovuta a una spensieratezza oratoria, ma è ben meditata e costituisce probabilmente il fulcro di tutta la sua personale concezione teologica.
"Gratias ago Domino Deo nostro, qui huiusmodi opus fecit, in quo requiesceret. Fecit caelum, non lego quod requieverit, fecit terram, non lego quod requieverit, fecit solem et lunam et stellas, nec ibi lego quod requieverit, sed lego quod fecerit hominem et tunc requieverit habens cui peccata dimitteret".
"Ringrazio il Signore Dio nostro che ha creato un’opera così meravigliosa nella quale trovare il suo riposo. Creò il cielo, e non leggo che si sia riposato; creò la terra, e non leggo che si sia riposato; creò il sole, la luna, le stelle, e non leggo che nemmeno allora si sia riposato; ma leggo che ha creato l’uomo e che a questo punto si è riposato, avendo un essere cui perdonare i peccati" (Exameron, IX, 76).
Come si vede, secondo Ambrogio Dio crea l’universo per l’uomo, e crea l’uomo per poter essere misericordioso. Non si può dire che crei l’uomo peccatore o perché pecchi; ma si deve certamente dire che il riposo ultimo di Cristo nella morte redentiva e la manifestazione della divina misericordia rappresentano il senso ultimo e più alto della creazione.
La liturgia ambrosiana sembra farsi eco della voce del suo Padre e Maestro, quando in un suo prefazio proclama: "Ti sei chinato sulle nostre ferite e ci hai guarito, donandoci una medicina più forte delle nostre piaghe, una misericordia più grande della nostra colpa. Così anche il peccato, in virtù del tuo invincibile amore, è servito a elevarci alla vita divina" (XVI domenica per annum).
Dio è sempre il primo; perciò la sua misericordia non consegue al peccato ma lo anticipa. È vero che la pietà divina si effonde sul mondo per rimediare alla colpa, ma è ancora più profondamente vero che la colpa è accolta nel progetto eterno perché il perdono possa manifestarsi.
Dio poteva scegliere tra infiniti mondi possibili. Nessuno di essi avrebbe potuto manifestare tutte le perfezioni divine; ciascuno di essi ne avrebbe manifestata qualcuna. Eleggendo un ordine tutto incentrato nel Figlio suo fatto uomo, crocifisso e risorto, redentore e capo di una moltitudine di fratelli, il Padre ha preferito a ogni altro un universo che esprimesse soprattutto la sua gioia di perdonare ed esaltasse nell’uomo l’umiltà dell’amore penitente.
Ci si fa più chiara allora nella sua verità l’affermazione di Gesù che "ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione" (Luca 15, 7).
Il peccatore che si pente, esprime in modo diretto il senso specifico e il valore emergente di questo universo di fatto voluto da Dio.
Così arriviamo a capire che le nostre infedeltà, le nostre insipienze, i nostri “no” bizzosi (per i quali siamo e dobbiamo essere umiliati e confusi) possono diventare l’occasione per una vita spirituale più intensa; e che la stessa nostra colpa è vinta e travolta sul nascere dalla più grande forza d’amore del Padre che salva.
È una sofferenza vedersi nella propria meschinità. Ma appunto quando mi riconosco meschino, mi vedo proprio per questo chiamato alla salvezza e avvicinato al mio redentore: il mio peccato non fa in tempo ad esprimersi, che già è superato e dissolto dalla divina volontà di riscatto.
Alla fine c’è come una letizia dolente, che non dimentica le infedeltà e non lascia di piangerle, ma non riesce più a vederle se non già oltrepassate dal più grande impeto della misericordia del Padre.
Tratto da La multiforme sapienza di Dio. Esercizi spirituali con Giovanni Paolo II (Cantagalli, Siena, 2014)
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