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«Ho fatto parte della Commissione per l’eutanasia nei Paesi Bassi e vi dico: non fate come noi»
NEWS 3 Luglio 2015    

«Ho fatto parte della Commissione per l’eutanasia nei Paesi Bassi e vi dico: non fate come noi»

di Benedetta Frigerio

 

Convinto sostenitore della legalizzazione dell’eutanasia, sicuro della necessità di una norma con paletti solidi e membro per nove anni della Commissione di controllo olandese per vigilare sull’esecuzione della legge nei termini previsti, Theo Boer, docente all’università di Utrecht, di fronte ai numeri di chi vi ha fatto ricorso, che sono andati crescendo del 15 per cento ogni anno, ha fatto dietro front ammettendo i propri errori. A tempi.it Boer descrive l’eutanasia come «omicidio di una persona», parla di un’Olanda «in cui la carità è scomparsa» e di una «legge che ha effetti su tutta la società», spiegando perché i suoi avversari avevano ragione «quando dicevano che l’Olanda si sarebbe trovata su un piano inclinato pericoloso».

Nel 2001 l’Olanda ha approvato la legge sull’eutanasia. Com’è cominciato il dibattito e con quali argomentazioni la legge fu accettata?
Il dibattito cominciò alla fine degli anni Sessanta. L’influente psichiatra Jan Hendrik van den Berg sosteneva che i medici infliggessero grandi pene ai loro pazienti accanendosi continuamente nelle cure e che, invece, fosse necessario che prendessero coraggio per porre fine alle loro vita. All’inizio, l’eutanasia era considerata prevalentemente un “omicidio per pietà”. Negli anni Ottanta, poi, decidemmo che l’eutanasia, per definizione, dovesse avvenire su richiesta. L’omicidio di pazienti non capaci di intendere e volere, concordavano tutti, non era prudente. Si decise che, se i dottori avessero rispettato certi criteri, non avrebbero potuto essere perseguiti per il reato di eutanasia. I criteri erano che il paziente fosse capace di intendere e volere e che ne facesse richiesta, che la sofferenza fosse insopportabile e senza prospettive di miglioramento, che non ci fossero alternative e che venisse consultato un secondo medico. Per questo fu istituita nel 1998 una Commissione di controllo dell’eutanasia. Dal 2002 abbiamo una legge basata sugli stessi criteri e che si appoggia alla Commissione. Ho fatto parte di una di queste commissioni per più di nove anni.

Chi si opponeva alla legge, cosa sosteneva?
Dicevano che l’Olanda si sarebbe trovata su un pericoloso piano inclinato. E che bisognava migliorare le cure palliative. Sopratutto sostenevano che per principio una società non potesse occuparsi dell’uccisione organizzata dei suoi cittadini. Coloro che, come me, appoggiavano la legge sull’eutanasia, argomentavano parlando di pietà, di autonomia e di libertà individuale. Con il senno di poi, dico che ci sbagliavamo. L’eutanasia è diventata sempre più normale e diffusa (i numeri sono cresciuti da 1.800 a 5.500) e molti altri tipi di sofferenza, sopratutto esistenziale, sociale e psichiatrica, sono diventati motivo sufficienti per richiedere l’eutanasia.

Può descrivere gli effetti che questa legislazione ha avuto sulla società sia in termini numerici sia culturali?
In Olanda la legge sul “suicidio assistito” non ha chiuso la lunga discussione in merito; anzi, ne ha fatta cominciare un’altra. I sostenitori della libertà illimitata hanno visto la norma del 2001 come un trampolino di lancio verso diritti ancora più radicali. In effetti, la legge ha formato una sua propria realtà. Sempre più spesso la morte è contemplata come l’ultimo rimedio a qualsiasi forma di sofferenza grave, fisica, psicologica, sociale o spirituale. E nonostante il secolarismo spinto, molti sono convinti che l’eutanasia sia il passaggio a una vita migliore. Credo che questo sia un errore terribile. Innanzitutto, la decisione di uccidere qualcuno è la decisione di porre fine a un’esistenza. Punto. Si può sperare nell’aldilà, ma credo che dovremmo agire come se la nostra vita sulla terra fosse l’ultima che abbiamo. E credo che la decisione sull’eutanasia non possa essere definita una decisione “autonoma”. È autonoma tanto quanto il voto per un dittatore.

In questi anni si hanno avuto notizie di persone che hanno avuto accesso all’eutanasia anche se erano solo depresse. Si hanno notizie anche di famiglie intere che hanno “salutato” i propri cari con festicciole.
Anche se occasionalmente, è vero accade anche questo. Anche se la maggioranza dei pazienti e dei medici vedono ancora l’eutanasia come una scelta tragica ed eccezionale, io critico questi sviluppi.

Oramai sembrano essere saltati tutti i paletti.
Non tutti i paletti sono ancora saltati. La situazione è complicata. Primo, credo che l’Olanda abbia fatto un errore nella legge sull’eutanasia: alcuni criteri furono presupposti in maniera implicita. Ad esempio, la “sofferenza insopportabile” fu un criterio, ma non fu specificato cosa si intendesse. Molte persone negli anni Novanta erano convinte che si parlasse di un contesto legato alla malattia terminale. In realtà, però, ogni paziente oggi può ottenere l’eutanasia. Stando letteralmente alla legge non devi essere nemmeno malato. All’inizio si stabilì anche che la dolce morte fosse permessa solo all’interno del rapporto medico-paziente, ma anche questo non fu specificato. Di conseguenza ora esiste addirittura un’organizzazione di dottori dell’eutanasia a domicilio (“Clinica di fine vita”) che “aiuta” ogni anno centinaia di persone a morire.

L’Associazione dei pediatri olandesi auspica la legalizzazione dell’eutanasia anche per i minori di 12 anni. 
Siamo davanti a un altro sviluppo preoccupante. L’Associazione dei pediatri olandesi ha rilasciato una dichiarazione in cui appoggia la possibilità dell’eutanasia per i bambini di età compresa fra gli 1 e 12 anni. Mentre l’eutanasia per i maggiori di 12 anni è legale sin dall’inizio. Anche se su 35 mila morti contati dal 2002 solo uno aveva 12 anni e quattro 17. In altre parole: chiedere l’eutanasia per i minori di 12 anni è un fatto meramente simbolico. Quello che temo è che se anche questa proposta venisse accettata si aprirebbero le porte all’eutanasia per un altro e più grande gruppo di pazienti incapaci di intendere e di volere: adulti gravemente handicappati e malati di Alzheimer.

Pare davvero, come sostenne Oriana Fallaci, che l’Occidente sia più innamorato della morte che della vita e quindi della tolleranza individualista che del sacrificio caritatevole. Non le mancano i segni della carità?
Sì, mi mancano molto quei segni. La nostra società sottolinea così tanto la necessità dell’autonomia e dell’indipendenza, spingendo, ad esempio, ogni adulto sano ad entrare nel mercato del lavoro, che il risultato è spesso la grande solitudine di molti anziani. I loro figli, magari, li visitano una volta alla settimana o mensilmente o se ne prendono cura per alcune settimane, ma non possono offrire loro tutte le cure e le attenzioni di cui hanno bisogno. In ultima analisi, credo che il problema dell’eutanasia in Olanda sia in parte un conflitto intergenerazionale. Ciò spiega perché si riscontra difficilmente l’eutanasia nella popolazione immigrata che ha una coesione sociale maggiore.

Cosa direbbe oggi alle persone che in Italia, come avvenne nel suo paese quindici anni fa, chiedono la legalizzazione dell’eutanasia?
In una situazione in cui un numero crescente di persone soffre di solitudine, si può vedere l’eutanasia come la migliore soluzione ad essa. L’opzione dell’eutanasia può distogliere la nostra attenzione dalla ricerca delle alternative. L’eutanasia e il suicidio assistito sono legati alla libertà dell’individuo, ma si tratta anche di un evento sociale. L’omicidio di una persona ha conseguenze anche sulla vita degli altri! La morte assistita può spingere altri a richiederla. La sola offerta dell’eutanasia crea la sua domanda.