Sul perché dopo aver incenerito Hiroshima gli americani vollero sganciare una seconda bomba atomica su Nagasaki, il 9 agosto 1945, per piegare il Giappone a una resa che era già inevitabile, gli storici hanno fornito delle spiegazioni di carattere bellico. Fatto sta che in un colpo solo vennero cancellati oltre due terzi del cattolicesimo nipponico. Un cattolicesimo praticamente azzerato due volte nell’arco di tre secoli: l’altra volta fu con la persecuzione che culminò nella rivolta di Shimabara, di cui ha dato conto Rino Cammilleri nel suo stupendo romanzo storico Il Crocifisso del Samurai, e nel Quaderno del Timone La grande rivolta dei samurai cristiani.
Di seguito alcuni estratti dalla testimonianza di Akira Fukahori, sopravvissuto all’esplosione, rilasciata il 31 dicembre 2008 a Gravellona Toce, durante la Veglia di preghiera per la pace della diocesi di Novara.
L’orribile colonna di luce
Anche il 9 agosto 1945, come membro della “squadra informazioni” composta da alunni della scuola media, sono andato a lavorare nella fabbrica della Mitsubishi che costruiva siluri e mine per i sottomarini. Avevo quindici anni. Per sostituire i lavoratori chiamati al fronte come soldati, ci avevano fatto interrompere gli studi e obbligati a lavorare alle macchine, in aiuto ai pochi operai rimasti.
Quella mattina mi fu affidato il compito di portare alla sede centrale dei pompieri la notizia di un possibile attacco aereo dell’esercito americano. La sede distava circa un chilometro e mezzo. Verso le 11 mi trovavo nella veranda, in attesa di una risposta. Alle ore 11:02, appena percepito il frastuono di un aereo sopra di noi, fui investito da una immensa colonna di luce che sembrava sprigionare lampi in tutte le direzioni, e venni violentemente sbattuto sul pavimento. (Si dice che sul luogo dell’epicentro, la velocità del vento provocato dalla esplosione fu di circa 500 metri al secondo!). Ripresa coscienza e aperti gli occhi, sopra di me erano ammassati i corpi di due o tre giovani. I due più sopra avevano il volto e la gola trafitti da una miriade di schegge di vetro. Uno di loro era ormai senza vita. Quasi per miracolo io rimasi solo leggermente ferito.
La sede dei pompieri, dove mi trovavo, dista circa 2 chilometri e 800 metri dall’epicentro. L’edificio, in tralicci di ferro, pur deformato e devastato, era rimasto in piedi. All’interno dei locali rimasti c’era gran confusione, urla e panico. Vidi anche molti feriti.
Poco dopo, da tutta la zona leggermente collinosa di Urakami, su cui era stata sganciata la bomba, vidi salire come un vortice di altissime fiamme impazzite apparire e scomparire tra una immensa colonna di fumo nero.
Erano passati circa 10 minuti. Davanti ai me una donna dai capelli bruciati e scarmigliati correva disperata a piccoli passi. Un uomo sfigurato con le braccia a penzoloni e la pelle a brandelli camminava senza meta. Poi un’altra donna con in spalla un bambino coperto di sangue che gli spruzzava dal capo. Le mie gambe e tutto il corpo tremavano di fronte a quell’orrore. Era una visione infernale, con strade percorse da mostri e fantasmi orribili. (Si pensa che la temperatura al suolo sotto la colonna di fuoco emanata dalla bomba atomica abbia raggiunto i 3 o 4 mila gradi!) Fino a quel momento nessuno sapeva che si trattasse di una bomba atomica. La sede centrale dei pompieri annunciò che un nuovo tipo di bomba, simile a quella sganciata sopra Hiroshima 3 giorni prima, aveva dilaniato la città di Nagasaki causando molte vittime. Passato qualche tempo pensai di uscire da quell’inferno e ritornare a casa mia, distante poco più di dieci minuti. Ovunque guardassi i miei occhi scoprivano soltanto gruppi di corpi completamente carbonizzati. Giunto nella zona, tra i ruderi degli edifici distrutti non ho saputo riconoscere quale fosse la mia casa.
Una donna quasi completamente nuda vagava tra le macerie. Le parti scoperte del corpo erano di colore rosso vivo, e dalle scottature colava sangue. Provai una tale paura che fuggii da quel luogo, e disperatamente corsi di nuovo alla sede dei pompieri che avevo appena lasciato. Una commissione composta di americani e inglesi, inviata in Giappone 3 o 4 mesi dopo per verificarne gli effetti dell’atomica del 9 agosto, pubblicò dei dati circa le vittime di quel giorno. I dati vennero poi ripetutamente corretti; ma solamente nel 1950 un comitato giapponese pubblicò delle cifre attendibili. Sono le seguenti, comunemente ritenute oggettive anche oggi.
Morti 73.884
Feriti 74.909
Dispersi 1.929
Da quel giorno però altri 70.000 inermi cittadini sono morti prematuramente per gli effetti delle radiazioni atomiche subite.
I fedeli registrati nella parrocchia di Urakami, situata nella zona molto vicina all’epicentro, erano circa 12.000. Di questi ben 8.500 morirono in quel giorno. (Per avere un’idea della gravità della cosa, ricordo che i fedeli cattolici della Diocesi di Nagasaki sono oggi ca. 66.000, di cui 1.100 sacerdoti).
L’incontro con la madre
La bomba atomica aveva distrutto completamente la mia casa, la scuola che frequentavo e anche la fabbrica della Mitsubishi. Molti amici e parenti morirono o rimasero gravemente feriti, ma in quelle circostanze fu impossibile raccogliere notizie precise. Io sono figlio unico e mia madre era vedova. Da quando la salutai la mattina del 9 agosto non ho saputo più nulla di lei. Rimasto senza casa e senza alcuno cui riferirmi, rimasi presso i pompieri, che mi accolsero come orfano di guerra, dandomi un pasto al giorno e un posto per dormire. Stavo con loro sempre e lavoravo con loro, come potevo, al ripristino delle strade gravemente danneggiate e ovunque interrotte dal perdurare di vasti incendi. A me fu affidato l’incarico di distribuire le gallette di pane secco, un pasto molto modico, verso il mezzogiorno. Diversi giorni dopo, durante il mio solito servizio di distribuzione di quel misero cibo, nella zona della stazione centrale di Nagasaki, per caso ho scoperto il volto di mia mamma che guardava fuori da un rifugio antiaereo semidistrutto. Vi lascio immaginare la commozione e le lacrime che hanno scolpito nella mia memoria il calore dell’abbraccio di mia mamma miracolosamente ritrovata!
Senza dire nulla ai pompieri rimasi con lei in quel rifugio. Tra gli “abitanti” vi trovai anche mia nonna. Giaceva immobile per terra in una situazione penosissima. La sua casa era nella zona più disastrata, quella accanto al luogo dell’epicentro, e lei era rimasta imprigionata sotto le travi della sua casa, distrutta dall’esplosione. Respirava a fatica. Il volto era sfigurato, la mascella spezzata e sanguinante, la carne dell’anca destra era dilaniata fino all’osso.
Paolo Nagai
Il periodo della rinascita del quartiere e della chiesa di Urakami è caratterizzato dalla presenza e dalla attività del dottore Paolo Nagai, rappresentante e guida dei fedeli colpiti dalle radiazioni, chiamato anche il “santo dell’atomica”. Tutti lo ricordano come il personaggio centrale del cinema “Le campane di Nagasaki”. Paolo Nagai fu colpito dalle radiazioni mentre era al lavoro nell’Ospedale dell’università di medicina di Nagasaki. Sua moglie fu totalmente consumata dalla fiamma atomica nella sua casa, lasciando come unico segno della sua presenza la sua corona del Rosario. Paolo Nagai curò personalmente l’educazione dei suoi due figli. Dopo essersi prodigato ella cura degli ammalati e alla rinascita della comunità dei fedeli di Urakami, fu ridotto all’immobilità totale. Scelse quindi di vivere in una piccolissima stanza di poco più di 3 metri quadri, dedicandosi allo studio degli effetti delle radiazioni atomiche, anche sul suo corpo, e a mettere per iscritto quanto lui aveva intensamente vissuto. Di lui conservo anch’io un vivissimo ricordo che risale al maggio 1951. Sono molto conosciuti i suoi scritti “Lasciando questi miei figli”, “La corona del Rosario” “Le campane di Nagasaki”, base del film che ha avuto molta risonanza sia in Giappone che all’estero. Ricorrendo questo anno il centesimo anniversario dalla sua nascita, a Nagasaki sono programmate numerose manifestazioni in suo ricordo e per far conoscere alle nuove generazioni il suo profondo amore e desiderio di pace. Recentemente i suoi due figli, Makoto e Ayano, sono successivamente scomparsi a poca distanza di tempo. Un nipote ne custodisce le memorie, e continua a trasmettere ai gruppi di studenti, che ogni giorno visitano il piccolo mausoleo, il suo splendido messag¬gio tratto dal Vangelo: “Ama ogni uomo come te stesso”.